“E’ più facile spezzare un atomo che un pregiudizio.” A. Einstein
Premessa
Quante volte abbiamo sentito affiorare in noi, accorgendoci di condividerli, quei luoghi comuni e pregiudizi che professionalmente spesso abbiamo avversato e criticato.
“La tossicodipendenza è un vizio, il tossicodipendente è un delinquente, è una vittima del sistema, è un individuo pericoloso, rappresenta la feccia della società, la tossicodipendenza è inguaribile, è la nuova marginalità sociale, la comunità terapeutica è l’unico sistema di cura , il metadone è la droga di stato, etc…”. Questi e tanti altri sono i luoghi comuni, i pregiudizi che circolano nella società occidentale intorno alla tossicodipendenza informando la cultura ed il pensiero comune.
Da questi pregiudizi derivano le condotte e i comportamenti dell’uomo della strada e non solo; anche gli operatori dei servizi specialistici deputatati alla cura e al trattamento delle dipendenze patologiche sono condizionati dal sentire collettivo.
In generale il pensiero comune oscilla tra il versante risolutivo – terapeutico a quello difensivo – stigmatizzante, in una sorta di altalena spinta dalle istanze socio-culturali ed economiche dominanti del momento.
Il senso comune si identifica con la cultura di un popolo e, in quanto tale, contribuisce a determinare le modalità di comportamento e gli atteggiamenti che adottiamo nelle relazioni. Anche i comportamenti nei confronti delle persone affette da dipendenza patologica sono dunque il riflesso della cultura di appartenenza. Di fatto succede poi che le diverse modalità di approccio, diventate teorie, costituiscono il substrato ideologico ed il terreno di cultura su cui si organizzano le risposte espulsive e segregative.
Spesso si pensa che la scienza condizioni la cultura ma questo è un pensiero unidirezionale; è un’ottica grossolana e parziale che non tiene conto della teoria della ‘circolarità dei sistemi'; poco si riflette su quanto la cultura condizioni la scienza. Nella cultura di appartenenza, nel corso del tempo e attraverso modalità su cui per ora non ci soffermiamo, si istituiscono i comportamenti compresi quelli che caratterizzano la relazione tra il tossicodipendente e l’altro. Molti fattori contribuiscono a strutturare i processi istituenti dei comportamenti che, a volte, possono diventare stereotipie culturali. Dall’altro, in considerazione della teoria secondo la quale l’interiorizzazione delle istanze istituzionali partecipa alla strutturazione della personalità, noi stessi diventiamo l’espressione ed il veicolo dei comportamenti adottati nella società.
E’ lecito e conseguente chiederci allora quale è la implicazione individuale e collettiva rispetto al ruolo e alla funzione dei pregiudizi istituiti nella cultura di appartenenza.
Date queste premesse, nel momento in cui ci si accinge ad una riflessione sulla rappresentazione e sul significato simbolico dei pregiudizi a livello culturale, comunitario e sociale è imprescindibile rimandare al rapporto che intercorre tra il senso comune e la scienza per scoprire correlazioni e interdipendenze davvero interessanti. A tal fine è significativo lo studio del linguaggio inteso nella sua funzione performativa e organizzativa dei comportamenti.
Ma analizziamo un problema alla volta.
Il primo punto è come e se la cultura e l’ideologia benpensante si insinuino nella cultura scientifica, nelle discipline di settore fino ad inficiare gli atteggiamenti ed i comportamenti degli stessi operatori socio sanitari senza che questi ne siano affatto consapevoli posto che nelle scienze sociali fino a quelle medico-psicologiche si ritrovano gli stessi contenuti stigmatizzanti e le stesse stereotipie espresse a livello sociale.
Sul piano manifesto ciò non è così evidente. Le istanze paradigmatiche sono camuffate, mascherate dai valori buonisti e perbenisti della cura tipici della società neo-liberale i quali, a loro volta, rimandano ai meccanismi di controllo biopolitico in senso foucaultiano del termine. Sia le stereotipie comportamentali sia quelle ideologiche contribuiscono a strutturare i fondamenti di base di teorie scientifiche spesso anche molto complesse, e possono costituire il presupposto fondante e il terreno di coltura su cui imperano le ideologie e le politiche di gestione e di controllo. E’ difficile accettare, riconoscere, smascherare gli intricati meccanismi di interdipendenza tra scienza e senso comune ma un lavoro in tal senso ci potrebbe aiutare per diventare consapevoli che anche le buone pratiche e la prassi nei servizi e nelle istituzioni di cura sono derivate da pregiudizi e intrise di moralismo .
Esiste tutta una ampia e copiosa letteratura sulle pratiche relative all’assistenzialismo e alla sicurezza, oggi più che mai diffuse e adottate nei contesti di cura, che legittimano e riconfermano approcci formalmente corretti. Se analizziamo questo materiale in un’ottica di disindentificazione e decostruzione dell’apparato concettuale di riferimento è interessante ritrovare i luoghi comuni e le espressioni verbali che rimandano allo schema di riferimento proprio a ciascuno di noi.
La dinamica della circolarità tra scienza, istituzioni e senso comune ci fa vedere come questi aspetti si condizionino reciprocamente tanto che i comportamenti e, in maniera retroattiva, i costrutti di alcune teorie scientifiche costituiscono l’uno il rinforzo dell’altro. Difficile è discriminare come e quale sia la componente che sostanzi e condizioni l’altra essendo questo processo una questione di punteggiatura e quindi arbitrario perchè relativo al punto in cui si inizia ad osservare il fenomeno oggetto di interesse.
Se siamo attenti ad analizzare i nostri comportamenti con questa lente diventa facile ritrovare dentro i servizi di cura, siano essi pubblici o privati, Ospedali, Dipartimenti di Salute Mentale, Dipartimenti di Dipendenze Patologiche o Comunità Terapeutiche, molti stereotipie stigmatizzanti che inquinano il processo terapeutico e nulla hanno a che fare con la ‘cura’.
Ma come riconoscere tutto questo? Una strada percorribile, come abbiamo già detto, potrebbe essere la decodifica del linguaggio e la decostruzione dei paradigmi comportamentali degli operatori laddove si ritrovano le istanze espulsive e pregiudiziali, troppo spesso negate o rimosse.
Molto ci sarebbe da dire sui giudizi che circolano in modo copioso nei servizi. Durante tutta la nostra formazione ci è stato insegnato che il giudizio è estraneo al lavoro terapeutico. Esso dovrebbe essere temuto da tutti coloro che si occupano dei processi di cura, soprattutto se la professionalità è definita dal termine ‘psichè’. Mi riferisco in particolare allo psicologo, allo psichiatra, allo psicoterapeuta, allo psicoanalista e a tutte le altre figure affini che operano nel privato sociale o nel terzo settore. Ma torniamo al nostro ragionamento.
Si è detto che per confermare l’ipotesi sulla eventuale presenza di pregiudizi nelle condotte dei sanitari si devono individuare i dispositivi atti a rilevarli. In questo senso si intende utilizzare il concetto dell’emergente , derivato dalla concezione operativa . Sono emergenti gli enunciati verbali significativi utilizzati nelle pratiche di cura che, interpretati secondo il modello della concezione operativa, rimandano ai contenuti latenti e impliciti che costituiscono lo schema di riferimento individuale e collettivo
( Ecro, secondo il modello della concezione operativa). In quanto tali le istanze latenti non sono coscienti agli operatori ma presumibilmente sono rimosse con meccanismi di scissione e di negazione.
“Tutti a lavorare. Ci vogliono le maniere forti. Saprei io come fare. Non è possibile trattare con quella gente. Non guariranno mai. etc…” sono le frasi più comunemente in uso anche tra tutti coloro che svolgono un ruolo di cura. Possiamo considerarli l’emergente dell’implicito che sottende agli atteggiamenti formalmente corretti del dell’operatore i quali, al contrario, rimandano a contenuti di rifiuto e di stigma del tossicodipendente di cui si è ampiamente detto a proposito dei pregiudizi.
Tutto ciò ha una ricaduta sui pregiudizi interiorizzati dai soggetti affetti da dipendenza patologica. La autopercezione si modifica al punto che lo stesso pregiudizio, espresso a livello sociale, partecipa prepotentemente alla strutturazione e alla rappresentazione della immagine e, in ultima analisi, alla costruzione del Sé dello stesso tossicodipendente .
Egli si identifica con gli stereotipi della collettività e del senso comune tanto da non percepirsi come persona malata e bisognosa di trattamento sanitario bensì come criminale. Anche qui se analizziamo il linguaggio appare curioso con quanta frequenza il tossicodipendente, rivolgendosi all’operatore sanitario o di comunità all’interno di un trattamento, usi frasi del tipo “mi spiace, anche questa volta mi sono comportato male o non ho fatto il bravo” intendendo in tal modo giustificarsi per l’uso recente di sostanze stupefacenti. Adotta lo stesso linguaggio e lo stesso percepito che detta il senso comune, che utilizza il benpensante così come è diffuso dall’ideologia dominante. L’istanza di base permane di fatto di stampo moralistico.
E’ pertanto difficile credere che non ci sia una stretta interdipendenza tra questi fenomeni. Se li osserviamo in relazione al costrutto concettuale della concezione operativa e della teoria sistemica, questi fenomeni ci rimandano all’ipotesi già espressa all’inizio per cui il tutto si configura come un processo governato e determinato da un meccanismo di circolarità che si autoconferma e si riproduce.
I pregiudizi negli operatori, nella famiglia e nel tossicodipendenteinformano la nostra idea di malattia.
Funzione e ruolo
Si è visto come i pregiudizi e gli stereotipi si cristallizzano nelle strutture linguistiche; ora è doveroso analizzare come a poco a poco si attribuisce loro una valenza scientifica ed una coerenza logico-formale invadendo i vari contesti di vita e di cura per chiederci quale sia il senso di tutto ciò. In questo caso analizziamo il rapporto tra lo psichismo individuale e il sistema sociale nell’ottica di una psicologia sociale che si interroga anche sui complessi rapporti tra ideologia dominante e i processi psichici, sul concetto di malattia e di cura in quanto derivato storico e sociale .
Si è detto che i pregiudizi esistono in tutti noi e in parte contribuiscono a strutturare la nostra soggettività; ne deriva che anche la nostra idea di malattia ne è in gran parte condizionata così come le modalità di trattamento e di cura conseguentemente messe in atto.
La rappresentazione della dipendenza patologica da sostanze tossiche è derivata da rappresentazioni simboliche, in parte di derivazione moralistica e in parte scientifica, e sostenuta da teorie di stampo organicista e psicologista. Queste stesse rappresentazioni, che includiamo nella categoria degli stereotipi, si riversano sull’immaginario collettivo fino ad interessare gli stessi soggetti, le famiglie, gli operatori e perfino gli studiosi e gli scienziati del settore.
Sappiamo che questo fenomeno è ricorrente nella storia; basta ripensare alle teorie lombrosiane che hanno sostenuto “scientificamente” la tesi per cui esiste una correlazione tra il ‘cafone brigante’ e certe conformazioni antropo-morfologiche, oppure alle teorie sulla ‘purezza della razza ariana’ per ritrovare quale e quanta interdipendenza esista tra scienza e politica e verificarne poi gli effetti tragicamente nefasti che ne sono scaturiti .
Ma torniamo ai pregiudizi per valutare quanto incidono sulla nostra vita oggi. Facendo parte strutturalmente del nostro linguaggio dobbiamo, per la natura performativa dello stesso, comprenderne la struttura, la cristallizzazione e la istituzionalizzazione all’interno dei nostri comportamenti. E dall’altro studiare come si realizza il processo, inconsapevole, attraverso cui trasformiamo i pregiudizi in principi teorico-scientifici attribuendo loro il carattere feticistico della razionalità e della scientificità. Ed il gioco è fatto.
A ben vedere però le teorie così dette ” scientifiche ” sul consumo, abuso di droghe sono spesso decontestualizzate e totalmente prive di una cultura storicizzante. Si assiste infatti nella scienza ufficiale ad una sorta di generalizzazione di stampo riduzionistico ed omologante, in una sorta di conformismo globalizzante, dove si perdono le specificità culturali di comunità e di culture con approcci religiosi, magici e simbolici diversi .
Si pensi ad esempio ai rituali della transe e a molte liturgie sciamaniche dove la peculiarità ed il senso di taluni comportamenti, sono spesso legati all’assunzione di droghe. Ma ciò ha un senso ed un valore all’interno di quelle stesse culture, diverse dalla nostra, su cui non è lecito alcuna interpretazione né giudizio pena l’assunzione di un atteggiamento etnocentrico-eurocentrico veramente imbarazzante. Va infatti sottolineato come il rapporto tra cultura e sostanze psicotrope, nei contesti “altri”, è perfettamente integrato ed integrante e non è lecita alcuna interferenza di stampo neocoloniale che legittimi interpretazioni ed interventi di tipo repressivo.
Al contrario, nella cultura occidentale, si sono create nuove credenze e nuovi miti scientifici, del tutto astorici e acontestuali, che hanno selezionato e strutturato un linguaggio congruo e adeguato per sostenere in modo assoluto e acritico solo la condanna all’uso di psicotropi con poca attenzione al ruolo che questo comportamento gioca all’interno della cultura occidentale in questo periodo storico e alle nostre latitudini. Questa mancanza o meglio questo evitamento di comprensione è l’altra faccia del pregiudizio che, nel divieto e nella condanna, diventa paradossalmente elemento di rinforzo alla condotta tossicomanica contro cui il potere istituito dichiara di voler “combattere”. ( Interessante il linguaggio mutuato dal gergo militarista, machista e guerrafondaio)
Come meta del nuovo pellegrino laico, che assume un atteggiamento di sudditanza e di acritica acquiescenza rispetto a tutto ciò che viene mistificato sotto l’egida della scienza, nasce così la ‘teoria scientifica’ a cui fa seguito tutta una abbondante produzione di articoli scientifici, libri, convegni, protocolli di cura, farmaci, trattamenti e formazione di personale specifico con tutto il relativo business. Accade per la tossicodipendenza, così come per la malattia mentale e la malattia in genere: il concetto di malattia è strutturalmente implicato e inficiato dall’ideologia corrente o, come si diceva una volta, dominante.
La scienza e la religione si mettono al servizio dell’ideologia e ricercano un linguaggio, dei modelli esplicativi per giustificarla. Non esiste una scienza neutra e non implicata da qualcosa altro da sé.
Confusi e distratti da tutto ciò si perdono di vista gli elementi estremamente importanti che sottostanno all’ideologia stessa. Ad esempio i processi economico-produttivi che regolano la società e la comunità globale i quali, a loro volta, determinano e guidano le scelte in tema di politica sanitaria. Non si può infatti tralasciare né dimenticare che esistono processi economici, finanziari e commerciali che fanno della droga un mercato che, in quanto tale, è regolato dalla dinamica della domanda e dell’offerta.
E’ talmente ovvio e banale ma vale la pena ricordare che la droga si vende e si acquista; c’è un utile e un interesse economico non solo nell’ambito dell’illegalità ma anche in quello legale che troppo spesso si evita di prendere in considerazione.
Le istituzioni di cura e di ricerca scientifica, le case farmaceutiche, i servizi sanitari con tutto l’organico di persone che vi operano, gli organi di polizia, le commissioni parlamentari, gli studiosi del settore sono tutti coinvolti in un circuito economico che, a prescindere dal mandato istituzionale, rappresenta un sistema di interesse speculativo a sé stante e autoalimentatesi.
Si deve assolutamente conoscere e pensare a ciò con serenità… ma anche con spirito critico. Noi, operatori dei servizi addetti alla cura, dobbiamo contribuire a smascherare queste dinamiche e i falsi miti per non diventare gli sciamani o i sacerdoti di questa ideologia che ci ripugna.
Affrontare queste tematiche significa porre una serie di problemi che debbono essere inquadrati nell’ambito della psicologia sociale, al fine di dare una risposta al quesito sulla funzione ed il ruolo del pregiudizio. Quale è il rapporto di circolarità esistente tra il sentire comune e la cultura istituita all’interno del sistema?
Pensiamo che la funzione svolta dal pregiudizio sia quella di evitamento e copertura del conflitto, in ambito sociale ed individuale, con la conseguente incapacità a gestire l’ansia che ne consegue. Il conflitto assume diverse valenze, si manifesta con diverse sembianze e si colloca in diversi ambiti.
Implica questioni di potere e di dominio non risolto che un certo tipo di società ha tutto l’interesse a mantenere tale senza determinarsi in una risoluzione di cambiamento.
Facciamo riferimento al conflitto intrapsichico per ciò che attiene alla dinamica tra la pulsione di vita e la pulsione di morte che l’individuo non riesce più ad elaborare o, ancora peggio, con cui non riesce neanche a confrontarsi.
Facciamo riferimento al conflitto generazionale tra i padri (assenti, evaporati nel loro ruolo classico ma tuttavia ancora presenti in qualche modo) e i figli, in cui l’assenza di una elaborazione costante sul limite e sulla castrazione produce confusione e incapacità nell’espressione del desiderio, con tutti i conseguenti problemi nello strutturare legami e vincoli tra sé e l’altro.
Facciamo riferimento al conflitto sociale tra una maggioranza della popolazione sempre più impoverita e sfruttata e la sua controparte che gode di un aumento esponenziale della concentrazione della ricchezza nelle proprie mani.
Facciamo infine riferimento all’appiattimento del conflitto di genere dove tutto tende a ricomporsi in una sorta di recupero della mitologia del maschio padrone, sultano, che si circonda di belle odalische beate della sua presenza.
E’ lecito pertanto ipotizzare che la condizione di dipendenza da sostanze tossiche possa essere un sintomo, un indicatore, che segnala tutte queste difficoltà e sofferenze laddove una società non è più in grado di gestire le esigenze dei singoli e delle comunità né di corrispondere ai bisogni di base. Allo stesso modo può costituire anche, in quanto emergente, il punto di partenza di analisi socio-istituzionali sulla complessità e sulle contraddizioni all’interno del nostro vivere quotidiano. Questa incapacità d’altronde non è una conseguenza casuale bensì organizzata e pianificata rispetto al sistema di valori che la società persegue. Attraverso il processo di codificazione, di reificazione e di mercificazione essa lascia intravedere e sviluppare i nuovi miti che sono il consumo e la produzione, funzionali al sistema capitalista post-moderno.
L’ indicatore di benessere sociale, cui si tende attualmente a fare riferimento per rilevare l’andamento e lo stato di salute del singolo e della collettività, è la capacità di acquisto di beni di consumo. L’equazione è semplice: più compri e più sei felice. Essa diventa assioma e quindi unità di misura dello status sociale e della felicità.
Ne consegue l’effetto paradosso per cui lo stesso schema indica sia il percorso di guarigione sia il percorso che fa ammalare. ‘Comprare la droga’ e ‘comprare le cose’ è giusto perché fa stare bene, dà felicità.
Queste frasi che diventano poi comportamenti hanno un comune denominatore nell’acquisto; cambia l’oggetto ma permane l’identificazione tra acquistare ed essere felici. Non importa se nel caso degli stupefacenti ciò che acquista è una felicità chimica. D’altronde l’ipotesi che la teoria consumistica sia alla base di un processo di autodistruzione e di trasformazione antropologico-sociale è da molti autori già da tempo sostenuta ed elaborata seppure poco accolta e condivisa ( cfr. P. P Pasolini).
Questa complessità ed ambiguità è funzionale alla società dei consumi capitalistica postmoderna che, essendo determinata da istanze economiche e produttive, deve soprattutto rispondere a logiche di mercato.
Le droghe sono innanzitutto oggetto di consumo, merce da immettere nel mercato, anche e soprattutto quando assumono forme e sembianze riparatrici, di cura, come nel caso dei farmaci sostitutivi o agonisti degli oppiacei. La società occidentale ne fa un largo uso nei servizi specialistici, fino a celebrarne le qualità terapeutiche forse in modo esagerato seppure non è lecito misconoscerne la indubbia utilità. E questo con grande piacere e riconoscenza da parte delle case farmaceutiche produttrici. Poi il mercato si affina, assume altre forme e si insinua dentro ciò che di primo acchito potrebbe sembrare lontano da una logica produttivista e mercantile, fino a corrompere il trattamento psicoterapeutico che d’altro canto continua a proliferare in una molteplicità di approcci, troppo spesso approssimativi e selvaggi.
E’ lecito chiedersi se l’operatore sanitario, che prescrive farmaci o fa psicoterapia, sia consapevole del giro d’affari in cui è implicato o, se ingenuamente, sia preso in un circuito di cui spesso ignora la portata in termini di volume di capitale economico-finanziario coinvolto.
Se invece si osserva il fenomeno della dipendenza patologica dal punto di vista comunitario e ci si avvale anche delle conoscenze di discipline antropologico-sociali si può ipotizzare che la dipendenza da sostanze tossiche sia una risposta al malessere di chi non si riconosce in meccanismi sempre più alienati e alienanti.
Il piacere, o meglio il divertimento, si trasforma in una industria e si assiste al proliferare di aziende deputate ad organizzare la grande mistificazione per cui esistono addetti alla realizzazione della grande orgia pianificata del divertimentificio. Questi non-luoghi del divertimentificio diventano il rifugio-cuccia di chi non ha molte prospettive per il futuro in termini di pienezza dell’essere, di chi non sa cosa è il piacere profondo, di chi ha perso la capacità di stare in relazione perché vive in una società sempre più individualista dove è facile perdere il contatto con se stesso e con l’altro.
D’altra parte però l’inganno, o meglio l’ambiguità insita nelle sostanze psicotrope, sta nel fatto che la droga può assopire o eccitare facendo perdere il contatto con le proprie emozioni di scontento e di ribellione. Si determina così un effetto paradosso: il sistema dichiara su un piano manifesto di voler cambiare le cose, poi di fatto mantiene il proprio equilibrio proprio grazie agli effetti determinati dalle sostanze psicoattive sulla popolazione giovanile, addormentandola o distraendola.
Il fine dichiarato nelle politiche sanitarie o preventive è di modificare un certo modo di vivere e di stare al mondo, nei fatti questa politica in genere e l’approccio sanitario lo favorisce o addirittura lo incrementa. Vanno letti e interpretati in tal senso i processi e le economie di alcuni zone del mondo che si reggono sulla produzione e sulla lavorazione delle sostanze primarie di base, le guerre, comprese quelle umanitarie che rispondono sempre a logiche di mercato e di produzione, per poi arrivare al business delle politiche repressive e di cura.
I soggetti, i gruppi , le istituzioni e le comunità sono lo specchio di un sistema produttivo.
Rompere l’adattamento ad un dogma, dare spazio alla critica del pregiudizio e aprire una riflessione ampia su tale complessità diventa disfunzionale al sistema vigente e viene perciò censurata ed evitata. Il sistema pianifica la riproduzione ideologica di istanze e di contenuti ritenuti funzionali per mantenere incontaminata la logica economica ed efficientista su cui si fonda e si perpetra il sistema capitalistico post moderno, su cui poi si instaura la ripetizione, la stereotipia dei pregiudizi.
Riteniamo che l’unico modo per contrastare e arginare questo meccanismo sia cooperare e pensare assieme. Le situazioni conflittuali e i certi meccanismi debbono essere pensati al fine di ‘trasformare in dialettiche le situazioni dilemmatiche’, come diceva Pichòn Rivere. La distruzione degli stereotipi ci potrà permettere di uscire dal pensiero conformista e dalla prigione che blocca i sentimenti e la creatività e, in quanto operatori, intacca il nostro ruolo di promotori di un cambiamento sia sul versante individuale che su quello comunitario e istituzionale.
In tal modo si può recuperare quella soggettività e quella funzione etica che, a nostro parere, costituiscono parte integrante e indissolubile della funzione di un operatore delle dipendenze patologiche e dei servizi sanitari in generale. Sappiamo che questa posizione potrebbe non essere condivisa da molti e potrebbe essere avversata con l’affermazione per cui tale approccio rappresenta un atteggiamento e un modo spurio di pensare al proprio lavoro.
Noi però rivendichiamo proprio questa specificità, la nostra prospettiva partigiana e l’implicazione etica di tutti coloro che svolgono lavori di cura, in particolare nel settore della salute mentale e delle dipendenze patologiche. Questo campo di intervento comporta di necessità competenze e contaminazioni di tante discipline quali quelle sociali, antropologiche, mediche, tossicologiche, culturali e filosofiche tra cui valutazioni e scelte di carattere etico.
Ma in ultima analisi esiste una professione o un ruolo che si possa esimere dal considerare anche le questioni etiche? Pensiamo decisamente di no.
Se accettiamo e affermiamo che la prevenzione è la scienza del ‘progettare, comprendere ed analizzare le cause multifattoriali della malattia e della salute’, allora dobbiamo assolutamente ribadire la necessità di una riflessione continua sui sintomi della salute come punto di forza per provocare il cambiamento, quel cambiamento che rappresenta il fine ultimo verso cui tende proprio la prevenzione stessa.
Noi operatori, assunti coscientemente il ruolo e il compito che siamo chiamati a svolgere dalla società, dobbiamo senza timore schierarci. O si va nella direzione radicale e vera di un agire per il cambiamento, quindi prevenzione e produzione di salute o si implode nella gestione della malattia che equivale a essere produttori di morte.
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