di Maria Teresa Fenoglio
Premessa
Le riflessioni che seguono sono il frutto di molti anni di ricerca sulla femminilità, il parto e la sessualità. Il mio impegno nel movimento femminista a partire dai primi anni ’70 ha seguito una parabola che mi ha condotto dalla militanza a sfondo ideologico alla psicoanalisi (della donna in particolare) contestualmente agli studi di psicosociologia e delle difese istituzionali, tra i quali quello condotto in alcuni reparti di maternità torinesi.
Mi rendo tuttavia conto di quanto, a fronte dei cambiamenti sociali e culturali intercorsi, che ci hanno portato al superamento della sessualità “binaria”, e alle nuove realtà affettive e di riproduzione (coppie omosessuali), il discorso che presento possa apparire molto “tradizionale”.
Quindi lo propongo con qualche riserva. Ciononostante continuo a credere che il pensiero
psicoanalitico femminile, che analizza la femminilità e la virilità in noi, mantenga il suo carattere innovativo e che per questo non solo non sia “superato”, ma permanga come risorsa importante per formulare progetti di rinnovamento sociali. Qualcosa tuttavia dovrà essere necessariamente riformulato alla luce delle nuove prospettive.
Inoltre, recentemente, lo scoppio della guerra alle porte di casa e la sconcertante assunzione da parte di molti della “mentalità di guerra”, come al solito voluta e diretta da uomini, può trovare in questo saggio, forse, una fonte utile di riflessione.
Le esperienze portanti
“Lo sviluppo dell’io consiste nel prendere le distanze dal narcisismo primario e di un lungo ed intenso sforzo teso a recuperarlo” (Freud, Introduzione al narcisismo, 1914)
Credo che la tensione vitale al recupero di una soddisfacente integrazione interiore, questa ricerca di una “autenticità del proprio essere” a ricomposizione delle frammentazioni del sé, costituisca la nota comune a tutte le esperienze “portanti”: l’attaccamento amoroso, la creazione artistica, l’investimento affettivo nei figli, l’esperienza del lavoro non alienato. A collegare tra loro le esperienze centrali dell’esistere, amore, arte, procreazione, far crescere, lavoro, c’è infatti un filo ben saldo: restaurare l’integrità narcisistica.
In queste che sono forme basilari del porsi della persona nel mondo è possibile ritrovare la
corrispondenza tra investimento negli oggetti e investimento nel proprio sé: una restaurazione dell’amore felice che nella circolarità dialettica intuita da Freud salda il soggetto all’oggetto attraverso una reciprocità narcisistica. L’essere umano, del resto, procede per investimenti/riconduzione a sé/re-investimenti, secondo una scansione dentro-fuori che costituisce il motore del processo simbolico e creativo dell’essere umano: “Fort—Da!”
Nessuna di tali esperienze dell’essere nel mondo, né l’amore, né l’arte, e neanche le forme meno speciali, la procreazione e il lavoro, sono unicamente “naturali”, cioè innate ed immediate. Si tratta invece di formazioni biologico-culturali, ad opera di soggetti in grado di operare questa saldatura-sintesi tra sé e l’altro da sé: capaci cioè di elaborare simboli ai vari livelli espressivi; là dove infatti l’elaborazione simbolica non verbale trova espressione in immagini mentali (un volto, un luogo, una musica…), quella verbale fa sì che l’individuo comunichi il proprio mondo interno agli altri, in questo modo trasmettendo conoscenza e cultura.
L’elaborazione simbolica è un processo; si rinnova e si ristabilisce ad ogni nuovo incontro, situazione e stimolo. Il simbolo si fa veicolo ed espressione della spinta interiore e allo stesso tempo strumento di decodificazione della realtà. Esprime adattamento, ma è sempre in qualche modo anche soluzione creativa; inoltre non si arresta ad una data età, non “invecchia”.
Noi clinici conosciamo di converso che cosa sia l’arresto del processo di elaborazione ideativa; lo osserviamo infatti in tutte le forme di alienazione: la nevrosi, in quanto blocco delle energie libidiche oggettuali; il lavoro “espropriato”, sia dal lato del profitto che del controllo sul prodotto; infine la procreazione come evento dovuto, o “catena di figliaggio”, ineluttabile destino di un corpo-natura che si è fatto proprietà di altri: del marito, della stirpe, o della consuetudine, con lo scopo di colmare un vuoto.
Gli studi condotti con Clara Capello fin dagli anni ’90, attraverso i quali abbiamo analizzato le istanze di liberazione/ autorealizzazione delle donne (sfociato nel libro “Perché mi curo di te”) ci hanno spinto ad approfondire le teorie del femminile in psicoanalisi e la specifica vocazione delle donne ai lavori di cura, che abbiamo visto non come vocazione nevrotica, ma come estensione del narcisismo di vita. Questa idea di fondo ci è stata ispirata da diverse autrici, come ad esempio Maria Bonaparte, J.Chasseguet-Smirgel, F.Dolto, ed è stata ripresa con molta efficacia da Silvia Vegetti Finzi in quel bel
testo sulla femminilità nascente che è “Il bambino della notte”. Attraverso numerosi casi clinici Vegetti Finzi arriva alla conclusione che la bambina, anziché venir determinata da una supposta invidia del pene, coltiva entro di sé l’idea di un bambino (il bambino della notte) di cui la bambola è un segno esteriore. Il bambino interno corrisponde al narcisismo di vita della bambina e segnala la sua capacità creativa. Anche il maschio così avrebbe la sua dose di “invidia” per la capacità generativa della femmina. La cura dell’altro, quindi, si collocherebbe simbolicamente non nella riparazione di una mancanza, ma nella estensione ad altri di un profondo, non nevrotico, compiacimento di sé.
Nel contesto di questi studi abbiamo ri-formulato l’idea della generatività della mente, prodotta dall’accoppiamento simbolico di elementi maschili e femminili indipendentemente dal genere di appartenenza dei soggetti.
Sullo sfondo di queste riflessioni, quindi, il destino della donna verso la propria liberazione non è visto più unicamente all’insegna della emancipazione dalle determinanti esterne della propria emarginazione, ma dai vincoli creatisi dal blocco alla creatività prodotto dalla colpa e dalla inibizione.
Ogni individuo, uomo o donna che sia, dispone di potenzialità interiori che possono entrare e mettersi in moto in una elaborazione creativa e ideativa, come appiattirsi nella ripetizione difensiva.
Così avviene per la procreazione. Essa può diventare un terreno di nuova consapevolezza, una esperienza ricca di contenuti che entreranno a far parte di nuove formulazioni simboliche, come può venire scissa, negata nelle sue valenze, o sovrainvestita con l’idealizzazione.
La procreazione è stata per molto tempo considerata terreno esclusivo delle donne. Le stesse donne hanno contribuito a farsene padrone. C’è da credere invece che l’uomo l’abbia allontanata da sé, rivolgendosi elettivamente ad altre attività. L’azione del fecondare, che pure è ricco di significato, è stato in qualche modo stornato dal processo della procreazione e dirottato altrove. E’ così che le attività cosiddette “maschili” (lavoro, carriera, realizzazione sociale), finiscono spesso deprivate del valore simbolico connesso con la fecondazione-procreazione, cioè dell’idea simbolica del figlio come prodotto di una relazione generativa, attestandosi invece su simbologie di intrusione possessiva e trionfo.
La scissione tra sessualità, maternità/paternità e procreazione
Leggere nella esperienza della procreazione decifrandola dall’interno significa avere come referente donne e uomini come soggetti unitari, esenti da scissioni in “funzioni”. Se la scissione tra sessualità e procreazione è diventata nel tempo consustanziale all’idea di virilità, con conseguente tendenza alla sacralizzazione della donna sposa e madre e spostamento della libido maschile su amori collaterali, la donna entra nella letteratura medica e in parte in quella psicologica essenzialmente in quanto portatrice di funzioni femminili e materne, nelle quali spesso le donne stesse si identificano.
A venir negata è la matrice erotica della gravidanza e della procreazione a vantaggio, sia per l’uomo che per la donna, della stabilità del vincolo istituzionale.
Se eros e sessualità vengono percepite come elemento di destabilizzazione sociale per entrambi i sessi, la scissione tra questi e la procreazione è particolarmente drammatica nella donna. La supposta identificazione regressiva della buona madre con il figlio impone che quella madre, cioè la madre socialmente interiorizzata, coincida con la madre dei desideri infantili: fonte di donazioni perenni, proprietà assoluta del figlio, oggetto idealizzato e non condiviso. Se infatti, secondo le fantasie dei molti adulti/bambini, la madre mantenesse una vita sessuale da cui trarre piacere, l’adulto/bambino sarebbe esposto a un senso di tradimento e perdita irrimediabili, a sentimenti di impotenza, rabbia e desiderio di ritorsione. Solo la madre idealizzata e onnipotente sembra aver spazio nell’immaginario sociale.
Ma in un senso più esteso, questa dinamica difensiva nega a donne e uomini un più ampio spettro di potenzialità. Sulla base dell’equivalenza fallicità/razionalità/fare, viene negata alla esperienza della procreazione il suo ruolo fondamentale per una crescita integrata dei soggetti.
La negazione della matrice sessuale della procreazione forclude in realtà l’interdipendenza dei due sessi, quella percezione della mancanza che si fa ricerca dell’altro. Il figlio, reale o simbolico, è infatti terzo nel rapporto di scambio tra individui, così come l’accoppiamento può avvenire non solo per via carnale, ma simbolicamente tra parti femminili e maschili dei soggetti.
Più di tutto però Il meccanismo della scissione impedisce che il procreare entri a far parte dei modelli simbolici che decodificano il mondo, lo interpretano e progettano.
Procreazione e lavoro non alienato
Così come nell’immaginario sociale sesso e maternità vengono tenuti separati, analogamente a virilità e genitorialità paterna, allo stesso modo la procreazione viene letta come categoria antinomica, o anche solo estranea, a quella del lavoro. Infatti, man mano che la rappresentazione del lavoro si è discostata da quella dall’universo contadino e artigianale, nel quale la simbologia si mostra coerente con il generare, il crescere e l’avere cura, ed ancor più nei tempi presenti, in cui l’oggetto del lavoro è diventato estraneo alle mani (“inafferrabile”) in quanto intangibile, lavoro e generatività si sono collocati in universi non compatibili.
La chiave della formazione di questi universi simbolici che operano in opposizione all’integrazione psichica dell’essere umano favorendone l’alienazione è una specifica rappresentazione interiorizzata della donna, e specularmente quella dell’uomo. Essa si basa sulla dicotomia natura-cultura, sull’onnipotenza estranea al limite e alla cura, e su un codice affettivo di controllo e possesso della figura materna da parte di un adulto/bambino.
A formare tale rappresentazione intervengono:
• l’idea di una gravidanza avulsa dal sesso, coinvolta da molteplici forme di rimozione: del
rapporto sessuale come motore biologico-psichico della gravidanza in atto; di una normale
vita sessuale della donna in gravidanza; della gratificazione narcisistica della gravidanza
stessa. Analisi istituzionali condotte nei reparti di maternità hanno messo in evidenza l’esistenza di numerose difese istituzionali a fronte della intollerabilità di una
contaminazione tra sessualità della donna e maternità, così come della coppia madre-
bambino, oggetto di invidia istituzionale. 1
• L’enfatizzazione/idealizzazione della diade madre-bambino, con conseguente
sottovalutazione di altri importanti elementi e figure che intervengono nella esperienza della gravidanza e del parto: i genitori della coppia, il rapporto con il partner, il ruolo delle
istituzioni.
• La negazione di ogni possibile fruizione narcisistica della procreazione da parte della donna, come se l’oblatività e la negazione di sé connotassero la buona madre.
• La negazione della drammaticità e conflittualità del vissuto profondo della donna e della
coppia, conflitti che investono il contenuto del corpo della donna in gravidanza (ansia
genetica), le mutazioni del suo corpo e le aspettative del mondo sociale circostante,
prossimo o allargato.
• La negazione di ogni vissuto che rimandi alla aggressività della donna, al rifiuto o
ambivalenza verso l’assunzione del ruolo previsto di “buona gravida” e in seguito di “buona madre”.
• La formazione della categoria di “tutela”, all’interno della quale il tutelatore (in veste di
esperto o di istituzione tutelatrice) si pone al tempo stesso come figlio bambino di una madre oblativa e come difensore del corpo materno dagli attacchi del sé bambino.
Ad ultimo:
• La mancata collocazione della procreazione all’interno delle esperienze umane “portanti”, che riguardano tutti gli esseri umani, sia maschi che femmine.
A questa fondazione culturale concorrono donne e uomini. Troppo spesso la donna appare debole nel comprendere la valenza della procreazione, circoscrivendola a evento solo privato e ponendo un limite ad integrarla a tutte le esperienze della vita e della sessualità. Analogamente l’uomo oscilla tra la completa delega alle donne, accompagnata da un senso di inadeguatezza, e una difesa pervicace del proprio ruolo maschile di “prima”, eretto a baluardo contro una dimensione esistenziale sentita come troppo invischiante e avulsa dalla propria identità.
Ciò che può fare della procreazione una esperienza “portante”, cioè in grado di fornire parametri di interpretazione della realtà, è, per entrambi i sessi, riuscire a sentirsi “strumenti attivi”: strumenti di quelle leggi naturali di cui non si avrà mai il completo controllo; strumenti dell’impulso erotico generativo, orientato alla creatività e al piacere e che ci rende protagonisti consapevoli della propria spinta, reale e simbolica, a generare e allevare in quanto attività cardine della propria presenza socio-politica.
Farsi strumenti e al contempo essere attivi pone in relazione due polarità apparentemente
contrarie. La gravidanza e il parto compendiano precisamente queste due istanze: la passività, che si traduce nell’accogliere una nuova forma vitale indipendente, che si può soltanto assecondare con premura; l’attività, che invece è dimensione segnata dal desiderio e dal progetto, dall’allestire uno spazio fisico e dal provvedere concretamente. Non è difficile individuare in questa ricomposta polarità la dinamica della genitorialità, così come della cura delle piante e dei coltivi, dell’operare in squadra, del plasmare la creta e dipingere, della buona politica. Tutte queste attività, come nella procreazione, si reggono grazie alla dialettica tra passività/accettazione (delle leggi della natura; delle diversità tra individui; dei limiti umani e delle forze; del destino) e dell’energia desiderante.
La procreazione è una tra le diverse attività caratterizzate da questa dialettica interna degli opposti, sorta di miscuglio vitale. Certamente è tra quelle più largamente condivise. Ma considerarla una esperienza unica, privilegiata ed irripetibile, enfatizzarla cioè, significa in fondo riproporne la marginalità, non coglierne gli elementi che la unificano ad altre esperienze, non facendola entrare nel grande circolo delle attività umane, del sociale e del politico.
Gli ostacoli che si frappongono a questo allargamento del significato della procreazione non sono solo di ordine esterno all’uomo e alla donna. Tra gli ostacoli di ordine interno, ricordiamo nella donna il timore ad avventurarsi fuori dalla tutela, la difficoltà ad affrontare il percorso verso una identità complessa e da inventare. Nell’uomo la difficoltà a emanciparsi dalle aspettative sociali, da una identità legata a una virilità esibita, dalla paura a confondersi con la donna.
L’esperienza della procreazione contiene tuttavia alcune specificità di particolare valore simbolico.
Nella donna la gravidanza può essere considerata emblematicamente una “esperienza ponte”: a un polo sta la concentricità della donna col proprio oggetto (se stessa/figlio), densa di compiacimento e pienezza dell’essere; all’altro polo, la prefigurazione del figlio come persona separata e come “terzo” del rapporto di coppia, un distacco-mediato dal parto, dal puerperio, dall’allattamento-che porta alla individuazione di due nuovi esseri, la madre e il bambino, e della triade, madre- padre-bambino.
Per la donna gravida il corpo è investito narcisisticamente. Se nel rapporto sessuale l’investimento narcisistico veniva attuato e poi rimandato nel corpo dell’altro (amo il tuo corpo e il corpo che tu ami), nella gravidanza l’esperienza di pienezza è in qualche modo “con-clusa”, e questo, pur indispensabile per l’investimento oggettuale nel figlio, può essere guardato con invidia e con sospetto, invece che protetto e incentivato. A meno che sia vissuto come perdita ineluttabile, il successivo fisiologico distacco madre-bambino consente alla donna di integrare la maternità con tutte le altre esperienze della vita, spostando la ricerca del piacere generativo su altri oggetti.
Esistono analogamente altre “esperienze ponte”, là dove le energie erotiche e narcisistiche si traducono nella creatività e nello scambio dell’incontro. In queste esperienze, tra le quali includo quello del lavoro non alienato, l’oggetto d’amore è nel contempo all’interno e al di fuori dell’io, parte dell’io e che all’io ritorna per arricchirlo.
La soddisfazione erotico/narcisistica della donna rimane tuttavia un tabù sociale. E’ quindi socialmente ammesso che la donna lavori, ma non che ne tragga gioia; e che sia gravida, ma non per se stessa. Il soddisfacimento è letto come intrusione della sessualità in una immagine materna che, come abbiamo visto, si vuole oblativa e munifica.
Ma ancora più scandaloso può apparire lavorare e procreare con soddisfazione e senza conflitti, ove il lavoro assume l’evidenza della piena autonomia, ed è quindi una sfida. Sempre più donne in realtà realizzano questa doppia presenza, ma non è un caso che, come si vede accadere per le figure pubbliche, esse vengano attaccate con invidia. Questa immagine di madre autonoma e forte perseguita la fantasia degli individui. La donna stessa è spesso convinta che se manterrà desideri, aspirazioni, amori “da ragazza”, costituirà una minaccia per i suoi propri figli.
Il filo che congiunge tra loro sessualità, soddisfazione narcisistica, procreazione e lavoro, testimonia una unitarietà felice del soggetto difficile da far accettare. Una società fondata sulla divisione del lavoro e delle competenze, che relega il corpo tra sublimazione e pornografia, non tollera una proposta che, pur andando nella linea della espansione e realizzazione del desiderio, contempla anche l’accettazione del distacco e della sua elaborazione, della realtà della propria morte e non univocità di ciò che poniamo come assoluto: il nostro esistere.
L’evidenza che porta con sé la donna gravida, infatti, è un messaggio inquietante: che nel farsi dell’altro si pone la propria morte e che quindi il voler separare la procreazione da tutte le altre attività della vita può significare porre una distanza tra sé e la coscienza della morte. Grazie a questa separazione il lavoro produttivo può porsi come termine indiscusso di ogni valore, addirittura come “eterno” valore.
Si parla da molti anni, con poco costrutto, del problema del “soffitto di cristallo”, quell’ostacolo invisibile che impedisce alle donne di accedere ai più alti livelli di responsabilità nelle organizzazioni e nelle istituzioni. Ma il sentire incompatibili maternità e lavoro non è solo frutto di condizionamenti culturali o generici sensi di colpa da parte della donna. E’ la risposta inevitabile alla giusta percezione inconscia che procreazione e lavoro, così come si pongono oggi, sono termini antitetici: da una parte la funzione riproduttiva, priva di mete oggettive, che si confronta con il farsi anonimo quotidiano
della vita e della morte. Dall’altro il mondo competitivo del sociale, con il suo valore assoluto e inconfutabile: qualcosa, è vero, di irraggiungibile per le donne, ma anche qualcosa che le donne guardano con un certo senso di superiorità consapevole. Con il tempo le donne si sono rifugiate sempre di più in contesti che permettevano loro di mantenere la qualità della vita e il senso concreto delle cose. Accettare tuttavia questa scissione porta all’autoemarginazione, perché il patrimonio di consapevolezza accumulato nell’operare in sintono con la vita non diventa parola, fatto, codice di trasmissione consensuale agli uomini e alle donne. Non si pone come valore, come termine di
paragone. Non si fa cultura. Così sta avvenendo per la guerra ucraina: le donne fuggono, per proteggere se stesse e i figli. Gli uomini restano per combattere. Sia dal fronte russo che da quello ucraino le donne piangono e si prendono cura, ma non hanno la forza per schierarsi contro la guerra, imprimere un corso alla politica. Ancora oggi questo “non è dato”.
Il lavoro non alienato è lavoro procreativo
Se tutte quelle che abbiamo chiamato “esperienze portanti” hanno come caratteristica quella di prevedere l’integrazione interna dell’individuo, la procreazione contiene in sé valori simbolico/affettivi che la rendono paradigmatica per altre esperienze della vita.
Essa infatti può considerarsi come una “esperienza di formazione”, intesa come processo di crescita a carattere integrato, contraddistinto dalla capacità di decentrarsi da sé e dagli oggetti per pensare e pensarsi in senso evolutivo. Ciò può avvenire sia nel caso che l’oggetto finale della formazione sia il figlio vero e proprio, quanto che sia invece un figlio simbolico, come lo è un prodotto, una idea, un contenuto.
Il lavoro non alienato è quindi lavoro procreativo e prevede che entri a far parte di un percorso di formazione:
Esso infatti:
• pone il proprio prodotto come terzo di una relazione tra il soggetto e gli altri.
• Nasce dalla capacità del soggetto di prefigurare un prodotto finito, una elaborazione, una
idea, che lo rappresenti nel mondo.
• Comporta l’interiorizzazione da parte del soggetto della relatività del proprio esistere
• Comporta la coscienza della propria dipendenza da leggi naturali ed obiettive.
• Comporta la convinzione della necessità della relazione e della collaborazione per la riuscita della attività.
• Affida l’immortalità, o permanenza oltre la morte, ad un progetto largamente condiviso, che può essere continuato ed ultimato da altri
• Contempla il soddisfacimento del fare, di natura narcisistica ed erotica, ponte per la
relazione creativa con gli altri.
• Contiene la possibilità di assistere e nutrire il proprio figlio-prodotto.
• Contempla la separazione e il distacco.
La guerra
Lo scenario drammatico da cui siamo confrontati in questi giorni, quello della riproposizione della guerra e di tutti i consolidati meccanismi che ad essa conducono (individuazione del nemico, desiderio di vendetta, eroismo irresponsabile, sottostanti avidità economiche) hanno come contrappasso il pensiero e le azioni generative/procreative: gli appelli di cittadini di entrambi le parti a fermare il massacro; l’apertura delle case all’accoglienza; l’offerta spontanea di trasporto, conforto e amicizia. L’urgenza a fornire cura. Iniziative come quelle intraprese dalla pagina web a carattere turistico “Host a sister”, si è trasformato in una organizzazione di accoglienza. Un’altra
pagina web estetico/consolatoria con migliaia di iscritti, Out of my Window, è stata invasa da immagini dall’Ucraina. Le femministe e duecento ONG russe, hanno diffuso il loro messaggio contro la guerra, e così artisti, intellettuali, e normali cittadini..
Del resto da tempo, con minore esposizione mediatica, gruppi di volontari di nazionalità diverse si adoperano con ogni mezzo per soccorrere i migranti dei mari e delle rotte balcaniche, rei forse di non essere della nostra stessa “razza”.
Già nelle guerre passate vi sono stati esempi di militanza coraggiosa ma controcorrente alla logica dominante che vuole la storia segnata solo dal conflitto, una storia esclusivamente “fallica”.
Andando controcorrente (la storia la fanno solo le guerre) la storica Anna Bravo ha lasciato uno scritto di grande bellezza, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato (Laterza 2013), ricostruzione di come individui e nazioni sono riusciti a evitare spargimento di sangue. In modo analogo la nipote di Tito, il medico Svetlana Broz, dando vita a una azione simbolica legata alla generatività, ha percorso i territori della ex Yugoslavia in guerra per raccogliere testimonianze di quanti delle diverse etnie si erano aiutati vicendevolmente : I giusti nel tempo del male. Testimonianze del conflitto bosniaco (Erickson, 2008).
Farsi strumenti attivi
Dopo aver tracciato un possibile quadro del procreare e produrre in modo non alienato e del “generare” un diverso approccio attorno ai conflitti e alla politica, ci domandiamo quali potrebbero essere le fasi intermedie ad una sua realizzazione, che apparentemente ha tutti i limiti di un discorso ideale.
Non credo che la soluzione sia di rimandare il discorso al momento della disalienazione del lavoro o a trattative diplomatiche risolutive, anche perché esse non sono generatrici automatiche di una trasformazione politica.
Potrebbe essere importante invece ricondurre alcune iniziative politiche (manifestazioni per la pace, lotte sindacali, lotte contro la violenza) ad alcuni paradigmi che, discostandosi da quelli tradizionali dell’eroe militante, aggancino, espandendola, la dimensione della generatività e della cura.
Più che a rivolgersi allo scontro “militante”, ma anche ahimè simmetrico con i valori dominanti, occorrerebbe in questa nuova fase rendere propositivi i valori e i contenuti simbolici del procreare.
Le donne hanno utilizzato questa cifra in tutte le guerre: la signora della lampada, i “gruppi di difesa della donna dei volontari per la libertà” sono solo alcuni esempi. Ma questo universo femminile è sempre stato la nota materna a copertura delle violenze della storia, non riuscendo a conquistare la dignità della proposta culturale e politica.
Fare di quella che è sempre stata una sottocultura una cultura consapevole può essere un obiettivo, al fine di contribuire alla creazione di una società disalienata.
Continuare a vedere valori maschili e valori femminili come entità contrapposte è a mio parere un errore. Una società in cui persistono modelli “attivi” (il maschio, il lavoro, la trasformazione, l’intrusione, il sesso, la politica) e modelli “passivi” (la procreazione, la cura), si fonda sul fatto che questa passività-necessità è stata ad oggi attivamente assunta propria dalla donna, cristallizzandosi in precise identità. Si fonda su una scissione data per scontata: da una parte il corpo, il ruolo materno, con cui la donna si identifica. Dall’altro un soggetto superegoico esterno a lei, “scientifico”, risolutorio, severo e castrante: la “vera” politica, le leggi dell’economia e della guerra, il Partito.
Questo genere di passività non tocca in realtà solo le donne, ma si palesa presso tutte le categorie umane meno forti sul piano del potere e sul quello produttivo.
Piuttosto quindi che prefigurare le donne come vittime non consenzienti della società, oggi
ampiamente citate all’interno di quella categoria chiamato “femminicidio”, occorre iniziare a considerarle come artefici concorrenti alla formazione di un nuovo modello di politica.
Nonostante le forti trasformazioni in atto nella identità di genere, nell’animo degli individui permangono i modelli di un tempo che, pur se fonte di alienazione e sofferenze, costituiscono codici condivisi collaudati dalle leggi della sopravvivenza, strumenti di comunicazione e socializzazione. Se vogliamo però prefigurare una società che metta al suo centro la procreazione, nei suoi significati affettivi e simbolici, su questi modelli segnati dalle scissioni occorre intervenire attraverso processi di presa di coscienza collettiva.
Operando sui contenuti e le finalità del lavoro e della convivenza e facendo luce contestualmente sulle implicazioni profonde della generatività/procreazione per tutti gli esseri umani, si potranno credo trovare parametri nuovi, referenti chiave per una proposta politica.
*(Questo articolo ha tratto spunto dalla mia comunicazione dal titolo “Il progetto gestazionale della donna” alla Assemblea nazionale delle donne comuniste, Roma 1983)
NOTE
1 Capello C., Vacchino R. (1985) Sessualità femminile e istituzioni sociali. Una prospettiva psicoanalitica, ETS; Capello C., Fenoglio MT (2005, 2010), Perché mi curo di te?, Il lavoro di cura tra affetti e valori, Rosenberg & Sellier.
BIBLIOGRAFIA
• Bonaparte M.(1957, 1972) De la sexualité de la femme, tr. Paolo Maria Ricci e Valeria Giordano, La sessualità della donna, Newton Compton
• Capello C., Vacchino R. (1985) Sessualità femminile e istituzioni sociali. Una prospettiva psicoanalitica, ETS
• C.Capello, M.T.Fenoglio, Perché mi curo di te? Soddisfazioni e fatiche nel lavoro sociale, Rosenberg & Sellier, Torino 2010
• Chasseguet Smirgel J.(1988), Les Deux arbres du jardin, ed. Des Femmes - Antoinette
FouqueDolto F. (1987, 1995)), La libido feminine, Carrere, Il desiderio femminile, Mondadori
• Fenoglio MT
-Il progetto gestazionale della donna, comunicazione alla Conferenza internazionale
“Donna e lavoro”, in “Produrre e riprodurre”, Torino, 1984
- Donne e parto alternativo, in “I Quaderni dell’associazione Livia Laverani Donini, anno
1 No.1,Gennaio Marzo 1985
- Donne e psicoterapia, in “L’Indice”, Gennaio 1990
- La bambina, la sua crescita, la sua educazione, Comunicazione al convegno “Crescere
al femminile”, pubblicazione a cura della circoscrizione VI della città di Torino, 1991
- Le ostetriche al S. Anna: processo di emancipazione, motivazioni alla professione e sistema di valori, in “I Quaderni dell’associazione culturale Livia Laverani Donini”,
anno V, n.8-9, 1992
• Vegetti Finzi S. (1996), Il bambino della notte, Mondadori
Considerazioni di Leonardo Montecchi sull’articolo di Maria Teresa Fenoglio “La procreatività come paradigma per una proposta politica”
Mi colpisce innanzi tutto il tema della pro/creazione come ripetizione, nel senso che una certa tradizione la concepisce ( e’ proprio il caso di dire così ) come una sorta di clonazione, ripetizione di un originale da cui non è il caso di discostarsi. Quindi il codice della famiglia paterna, “il nome del padre” alla Lacan, marcherebbe per sempre l’ordine simbolico con il significante principale: il fallo. Sono totalmente d’accordo con te quando individui, citando Silvia Vegetti Finzi nel ” bambino della notte” anziché l’invidia del pene, la mancanza del fallo,l’accesso all’ordine simbolico della donna. Al contrario e’la capacità procreatrice a produrre l’invidia del maschio. Di più con gli studi di Luisa Muraro, come tu sai meglio di me, si definisce l’esistenza di un diverso ordine simbolico: l’ordine simbolico della madre che corrisponde ad un simbolismo legato alla lallazione.
Mi interessa molto il tuo studio perché approfondisce il significato della creatività o dell’inventiva, come la chiamava Massimo Bonfantini. È’ certo, per me, che qualsiasi forma di creatività implica la sessualità, la libido sotto varie forme. Ad esempio l’esistenza di ” muse ispiratrici, maschili o femminili”per la realizzazione di opere figlie di quella relazione.
Anche il passaggio da un aggruppamento:(persone che si trovano assieme per un compito comune)ad un gruppo: (persone che si tengono in mente ed usano il pronome “noi”) e’ caratterizzato da immagini che si riferiscono alla nascita e quindi alla circolazione della libido.
Del resto c’e una relazione molto stretta fra Eros e conoscenza.
Per quanto riguarda la guerra ed il ruolo delle donne mi piacerebbe che si aprisse questo spazio al di là della stupidità che caratterizza tutte le guerre ed in maggior misura questa in cui rischiamo l’estinzione per un errore o peggio per una valutazione stupida.
Certamente nelle donne si manifesta la cura che è l’essere dell’esserci. La cura e’l’antidoto alla stupidità, infatti la stupidità non ha cura di se ne dell’altro.