L’adolescenza è un insieme di storie intrecciate, un grumo di possibilità che si dischiude passando attraverso la mutazione del corpo.
Con slittamenti progressivi, senza un preavviso, la voce cambia, spuntano peli ovunque e dai genitali escono liquidi sconosciuti o troppo conosciuti, come il sangue.
Nella vita quotidiana transitano desideri sconfinati, si agitano pulsioni prepotenti, emergono nuove emozioni.
E ad un risveglio mattutino dopo sogni inquieti ci si sente come Gregor Samsa, trasformati in un enorme insetto.
Ma questa metamorfosi kafkiana non è individuale, anche gli amici, le amiche stanno cambiando.
C’è però un ingresso individuale, un percorso corporale, una singolarità che immette in quello stato modificato di coscienza che chiamiamo adolescenza.
L’adolescenza è singolarità, è la mia adolescenza, ma nello stesso tempo pluralità: le tante adolescenze dei miei amici, o le adolescenze di chi mi ha preceduto, ad esempio i miei genitori.
Che cosa sta avvenendo?
Il corpo del bambino è abbandonato. Il vecchio involucro non c’è più. Inutile cercarlo. Rimangono solo ricordi, nostalgie di un odore, il terrore di un suono, immagini che attirano o che ripugnano, sorrisi e ghigni, pugni e carezze.
Eppure conserviamo dei simulacri nelle fotografie, nei video, nei supporti magnetici o cartacei per aiutare la memoria che può solo accedere alle emozioni collegate agli oggetti familiari: una bambola, un soldatino, il vaso della mamma che ho rotto e che il babbo ha riparato, l’orso di peluche che non parla più e così via, nella serie che può comprendere errori ed orrori, violenze, seduzioni,
non fare così che mi fai male, mi hai fatto male, mi ricordo, non ti devi ricordare questo…
Ma non c’è tempo per piangere il piccolo che fu e che ricresce in qualche fantasia familiare regressiva. Bisogna diventare adulti.
Si, ma quale adultus? Chi è il diventato, l’essere compiuto?
Quale è il modello di cui l’adolescente diventerà copia?
Questa “adultità” è un’idea platonica, è evidentemente un mito, come ha dimostrato negli anni 60 del novecento Georges Lapassade.
Noi nasciamo prematuri, necessitiamo di cure per un tempo enormemente superiore a qualsiasi altro animale. Siamo esseri incompiuti, neotenici, che solo un gruppo è in grado di completare.
Ed è in un gruppo primario: la famiglia, che si organizza uno schema concettuale di riferimento e operativo, la matrice gruppale della soggettività.
E’ questo schema che cambia, durante l’adolescenza, senza un modello precostituito perché il vecchio gruppo familiare non è più sufficiente a contenere le pressioni pulsionali.
La mente infantile si apre, i confini scompaiono ed appare il mondo nel suo splendore e nella sua miseria. L’adolescente, come Siddharta, vuole vedere il mondo, vuole uscire dal palazzo dorato o peggio, vuole fuggire oltre le mura dell’inferno del suo gruppo primario.
Spalancate le porte di casa esce dalla famiglia, per accedere ad un altro stato di coscienza.
Ma come non esiste “l’adulto assoluto” se non all’interno delle determinazioni storico-sociali, così non esiste “l’adolescente assoluto”.
Il giovane Werther, o il giovane Holden, ripetono la stessa storia della ribellione e della delusione dell’immersione nel mondo e della fuga dal mondo.
L’adolescenza era uno stato critico nelle società tradizionali, e veniva protetto da specifici riti di passaggio che avevano la funzione di evitare le “ crisi della presenza”, come le chiamava Ernesto De Martino, e cioè, riprendendo la nostra terminologia da Pichòn Riviere, quando lo schema di riferimento concettuale e operativo, la forma in movimento, la “gestalt gestaltung “in cui viene riposta l’esperienza della vita quotidiana, è sottoposta ad un cambiamento per permettere l’elaborazione di nostre esperienze, allora avviene la “crisi della presenza”, emergono le ansie di base.
Ansia depressiva, in primo luogo, ed ansie persecutorie e confusionali.
In questa fase di cambiamento c’è la ricerca di un gruppo che possa permettere l’elaborazione di un nuovo schema concettuale. Il gruppo degli amici.
Ma, come si diceva, nelle società tradizionali, l’adolescenza era un immaginario sociale che significava passaggio dall’infanzia ad una certa età adulta, e si celebrava con riti collettivi di iniziazione.
Per esempio, fra gli indios Guaranì del Sud America l’iniziazione all’età adulta si caratterizzava con l’assunzione di una bevanda composta dalla Ayahuasca, una sostanza che produce potenti allucinazioni zoomorfe.
I giovani dovevano scoprire il loro “animale guida” che li avrebbe transitati nell’altra età senza perdere l’anima.
Simili sono altri rituali che prevedono l’allontanamento dalla tribù, il digiuno fino a provocarsi delle allucinazioni uditive e visive o con l’assunzione di sostanze o con prove di sopportazione del dolore, ferite rituali, escoriazioni ecc.
Questa protezione rituale è scomparsa ed oggi assistiamo al suo ritorno sotto forma di pratiche metropolitane inconsapevoli, che non rispondono più al significato immaginario sociale condiviso, ma significano il dilatarsi nel tempo e nello spazio della condizione sociale di una perenne adolescenza che non è più il passaggio per un’altra condizione, ma è condizione in se.
Stato mentale di perenne ricerca, incompiutezza, essere che diventa, come i “prigioni” di Michelangelo, incompleti che lottano per uscire dal marmo, che cerca di ridurli a una forma informe, ad una materia prima dove ancora tutto è possibile.
L’adolescenza, così pensata e percepita, è come il tempio Jaina di Adinath a Rankapur ci sono 1444 colonne, ma una è storta, perché la perfezione non è dell’uomo.
L’adolescenza è così la coscienza dell’incompiutezza, l’apertura all’altro e alle possibilità, la ricerca continua di un orizzonte.
Tuttavia la progressiva scomparsa dei contenitori gruppali e delle forme rituali che organizzano l’adolescenza ha portato all’emergere di comportamenti distruttivi e alla presenza di forme di violenza senza scopo che caratterizzano il mondo della vita di chi ha un modello sociale individualista chiuso in una sola dimensione temporale: il presente.
Questa forma di vita che prospera nella nostra contemporaneità è puntiforme, digitale, piena di passato e di futuro, si aggira nella notte o nel giorno senza una traiettoria prevedibile, come una particella elementare viene attratta dai campi di forze, da attrattori strani che possono trasformare in un attimo il percorso di una vita. Da ciclista a cocainomane, da rapinatore a rapper, da studente ad assassino seriale, come ci mostra il film Elephant.
La polverizzazione dei percorsi vitali è la conseguenza dell’instaurarsi di significati immaginari sociali che esaltano l’individuo assoluto, cioè sciolto da ogni legame con l’altro.
L’individuo assoluto è il nuovo modello, un modello che richiama altre costruzioni immaginarie, altre risposte identitarie che ripropongono narrazioni mitiche basate su ideologie regressive e fondamentaliste.
Si sente riproporre, contro l’individuo assoluto, la comunità di sangue di cui parlava Tonnies: la Gemeineschaft come se si potesse tornare ad una mitica terra madre alla urkultur, la cultura di origine.
Non c’è nessuna origine, questo è solo un mito regressivo e pericoloso, non c’è nessuna civiltà di appartenenza originaria, il fondamento che bisognerebbe difendere e a cui bisognerebbe tornare.
Ma quale fondamento? Siamo tutti senza fondamenti, siamo noi a produrre la nostra cultura, non c’è nessun adulto. Né nel futuro né nel passato.
Siamo noi a produrre i nostri adulti storicamente determinati.
Ma in questa situazione, con la dissoluzione progressiva dei gruppi primari e secondari, e con l’emergere dell’individuo assoluto, entriamo in balia di risposte violente ed aggressive senza alcun motivo.
Queste aggressioni dimostrano la prevalenza della psicopatia, cioè la dominanza dell’azione senza pensiero.
Questo è l’effetto della digitalizzazione della vita, della scomparsa dei progetti che hanno forma analogica e non digitale, e della frantumazione e colpevolizzazione di qualsiasi gruppo operativo.
Che cosa è allora un gruppo operativo nell’adolescenza?
E’ una delle forme di resistenza al dominio del significato immaginario sociale individualista, è un modo per produrre legami e vincoli laterali e per produrre scopi.
Solo scopi o compiti chiari possono convocare i gruppi operativi, sono questi scopi che producono un nuovo significato immaginario sociale.
Porterò come esempio un vecchio gruppo operativo che si è svolto in una scuola professionale 15 anni fa. Si trattava di un gruppo di 16 ragazzi dai 14 ai 16 anni.
La consegna o compito manifesto del gruppo era di scegliere i corsi che avrebbero dovuto fare al termine del periodo di orientamento, che prevedeva una rotazione tra quattro attività professionali.
Il gruppo doveva discutere di queste esperienze e poi scegliere.
Immediatamente il setting del gruppo, un ora e mezza, con un coordinatore e con le sedie a circolo viene avvertito come un corpo estraneo dalla istituzione scolastica.
Lo spazio senza banchi è avvertito come un qualcosa che non si sa bene cosa sia.
Non è la lezione, ma neanche la ricreazione.
In mezzo ad una agitazione, un movimento continuo, un brusio di sottofondo che serve a diminuire l’ansia per la novità, cominciano ad apparire interrogativi su cosa sia quello strano spazio in cui “il prof” non parla, ma sta seduto ed ascolta senza mettere note.
Qualcuno dice:
“Io non vado quasi mai in discoteca”,
come se quello spazio potesse essere lo spazio di una discoteca immaginaria, un gruppo per divertirsi.
Accanto a questo c’è la richiesta che il coordinatore del gruppo organizzi e definisca lo spazio, c’è la ricerca di un capo, di un qualcosa che riporti tutto alla dimensione istituita della scuola, in cui non c’è baccano, si sente sul coordinatore il deposito del ruolo del professore “che non fa volare una mosca”.
Qualcuno dice che c’è baccano perché il professore non parla perché:
“Per forza, parlano gli altri”.
Se parlano gli altri non c’è l’ordine della lezione in cui parla solo uno, ma il parlare in molti è il cambiamento, il passaggio allo spazio del gruppo, alla moltitudine che permette la compresenza di molti altri alla discussione.
Questo cambiamento dello schema di riferimento concettuale ed operativo crea sconcerto, ansia, che viene espressa con il comportamento.
Mano a mano che si susseguono le sedute ed avanza il processo gruppale si può notare che l’ansia nel gruppo non è prodotta dalla situazione gruppale ma dalla consegna: il gruppo, discutendo, prende coscienza che la scelta tra un corso professionalizzante ed un altro è doppiamente frustrante.
Qualcuno dice:
“Io l’operaio d’estate non lo faccio.”
Questo futuro che collassa sul presente diventa molto ansiogeno, e cercano di depositare su di un integrante del gruppo la scelta del profilo professionale che nessuno vuole fare.
Qualcuno dice:
“E’ la legge del più forte”,
segnalando in questo modo il conflitto centrale del gruppo.
Loro non hanno futuro e sono emarginati perché non sono forti ed a loro volta emargineranno tra loro qualcuno che sarà il capro espiatorio.
Sembra che il codice del gruppo sia la legge del più forte.
Nelle altre sedute continua questo modo di affrontare il compito, cioè quello di costringere un “più debole” a scegliere il corso che nessuno vuole fare.
Tuttavia, ad un certo punto, emerge la consapevolezza che scaricare su di un membro del gruppo tutta la tensione e sacrificarlo non fa parte del loro modo di pensare, anche se continuano a ragionare per linee individuali:
“L’importante è che mi qualifichi”, dice uno.
Comincia anche ad emergere la consapevolezza che non si può costringere una persona contro la sua volontà, esistono le scelte diverse, esiste la libertà:
”Lei professore ha mai visto tutta la gente che guarda un solo canale alla televisione?”
Questa consapevolezza genera un ansia fortissima. Non sanno cosa fare, non sanno cosa scegliere e come scegliere assieme. Si sentono in una trappola. Tutta la rabbia blocca il pensiero e si trasforma in un agito:
viene rotto un vetro della porta.
Come se volessero uscire dall’aula, ma anche dalla situazione angosciosa.
L’acting, come sempre è un ostacolo al lavoro del gruppo: trasforma la parola, il pensiero, in azione; produce uno scarico di tensione, ma senza che a questo segua una presa di coscienza.
Anche il coordinatore viene accusato di essere la causa della divisione dei membri del gruppo. Domina l’ansia paranoide.
Tuttavia nelle ultime sedute il gruppo, lavorando sul compito, prende coscienza che il coordinatore non tiene l’ordine nel gruppo, ma che non è neanche un manipolatore che tende subdolamente a dividere gli integrati.
“Guarda che non è lui che ci divide”.
Vi è una presa di coscienza che un profilo professionale non interessa a nessuno, e che nessuno deve essere costretto a farlo per forza.
“E’ un lavoro che non mi interessa”.
Dopo di che sono usciti prima dell’ora istituzionale e non hanno voluto scegliere loro per l’istituzione.
Infatti anche io ho capito alla fine del gruppo che il compito istituzionale divergeva dal compito del gruppo.
L’istituzione voleva che gli adolescenti decidessero fra loro chi doveva andare ai corsi ben sapendo che, per lo meno, un corso non interessava a nessuno, ma si doveva fare per sostenere l’istituzione stessa.
Il gruppo invece aveva come compito la produzione del proprio futuro e la costruzione di un progetto collettivo.
Questo gruppo ha costruito il proprio futuro creandosi un esperienza in cui non si è diviso, e non ha accettato di scegliere come l’istituzione o il mondo degli adulti diceva di scegliere.
Questo è l’esempio della produzione di un significato immaginario sociale gruppale.
Il nostro compito è costruire una collezione di esempi che mostrino come si produce un significato immaginario sociale gruppale, è questo il nostro paradigma, che, come dice Khun, nella “Struttura delle rivoluzioni scientifiche”, si contrappone alla collezione di esempi che ci viene costantemente presentata dal paradigma basato sul significato immaginario sociale individuale.
I gruppi operativi sono piccoli, non sono molti, ma scavano le loro gallerie, e ci sarà un giorno in cui faranno cadere l’intera impalcatura sovrastante, e certamente, come un tempo, qualcuno dirà: “Ben scavato, vecchia talpa! ”
Bibliografia:
Cornelius Castoriadis L’istituzione Immaginaria della società Boringhieri
Deleuze Guattari Millepiani Castelvecchi
Antonio Negri Michael Hardt Moltitudine Rizzoli
Zigfrid Bauman Modernità Liquida laterza
Enrique Pichon Riviere Il Processo Gruppale lauretana
Armando Bauleo Psicoanalisi e gruppalità Borla
Georges Lapassade Il mito dell’adulto Ed Guaraldi
Leonardo Montecchi Introduzione alla concezione operativa di gruppo http://www.Psycomedia.it