Articolo di Ramona Di Muro, Marco Sancini, Claudio Aurigemma.
Nel presente lavoro prendiamo in considerazione un intervento di psicoterapia di gruppo all’interno di un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). Abbiamo deciso di utilizzare questa tecnica, poiché riteniamo che il gruppo, nonostante l’urgenza e la brevità dell’intervento, sia un valido strumento che integri la qualità delle cure offerte. Il gruppo rappresenta uno spazio dove le emozioni invasive, distruttive, incapaci di essere assimilate e contenute trovano un luogo, un contenitore, che le accoglie. Esso fornisce riparo ma anche la possibilità di riflettere su se stessi e di ritrovare la capacità di rimettersi in cammino.
Introduzione
Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) rappresenta uno dei servizi più complessi e delicati del Dipartimento di Salute Mentale. Sede elettiva per la gestione dell’acuzie e dell’emergenza/urgenza psichiatrica, esso ha un ruolo centrale nella valutazione clinico-diagnostica, nell’impostazione delle terapie farmacologiche e nello sviluppo di condizioni favorevoli alla presa in carico da parte delle strutture territoriali. A ciò si aggiunge il recupero funzionale e cognitivo dell’utente ricoverato, l’attenzione agli aspetti riabilitativi e di reintegrazione sociale e l’informazione agli utenti e ai loro familiari. La maggioranza degli utenti che giunge al ricovero, è costituita da pazienti psicotici acuti, pazienti gravi e gravosi, quasi tutti portatori di circostanze individuali, familiari, sociali drammatiche e intensamente dolorose.
IlSPDC riveste un ruolo cruciale nel percorso terapeutico di un certo numero di pazienti perché il ricovero nel reparto psichiatrico, oltre a fornire un servizio diagnostico e terapeutico finalizzato alla cura del disturbo psichico, cerca di recuperare le relazioni familiari e sociali del paziente per consentirgli una ripresa dei suoi percorsi di vita. La diagnosi non implica solo un’assegnazione ad una categoria di disturbi precisi ma anche una osservazione che consenta di riconoscere i bisogni del paziente, di identificarne le parti sane e soprattutto le risorse.
Sulla base di queste premesse, nei programmi terapeutici è stata istituita una dimensione gruppale che aiuti il paziente “ad essere ricondotto dall’altrove dove si sta situando -sintomo, delirio, dissociazione- al qui ed ora”.
Brevi cenni riguardo l’uso terapeutico della gruppalità
Secondo la nota ricerca di Yalom (1997) che per primo ha dedicato un libro alla terapia di gruppo per pazienti ricoverati, nonostante le differenze metodologiche e tecniche e gli approcci diversi degli psicoterapeuti, i fattori terapeutici sono fondamentalmente gli stessi: infondere speranza, universalità, somministrazione di informazioni, altruismo, ricapitolazione correttiva del gruppo primario famigliare, sviluppo di tecniche di socializzazione, comportamento imitativo, apprendimento interpersonale, coesione di gruppo, catarsi, fattori esistenziali. La visione gruppoanalitica, piuttosto che dare importanza ai singoli fattori che in vario modo agiscono nei gruppi terapeutici, considera fondamentale il processo terapeutico gruppale che fa insorgere tali fattori. La potenzialità supportava, adattiva o trasformativa dipenderà dal contesto terapeutico che offre il processo gruppale. A differenza di altri orientamenti, per esempio di tipo comportamentale, qui è cruciale l’interazione interpersonale che il conduttore ha il compito di favorire con un atteggiamento non autoritario, tollerante e democratico: “la dove c’era il conduttore qui ci sarà il paziente”.
Considerando il contesto di urgenza, dove il tempo è una delle costanti fondamentali, il gruppo non poteva avere le caratteristiche tipiche della gruppoanalisi Foulkesiana. Secondo i dettami classici, infatti, la gruppoanalisi è praticata all’interno di un piccolo gruppo con un numero di pazienti selezionati che va dai 6 agli 8 partecipanti. Le stesse persone sono presenti per tutta la durata del trattamento con la sola eccezione di un nuovo membro introdotto quando un altro lascia il gruppo. Dalla teorizzazione di Foulkes, si comprende come la terapeuticità del gruppo nasce progressivamente insieme all’altrettanto progressiva costituzione di relazioni tra i membri del gruppo. Dopo un certo periodo di tempo si assiste alla configurazione di una matrice dinamica, costituita dalla rete di relazioni tra i membri del gruppo. La psicoterapia praticata all’interno dell’ SPDC ha invece un profilo del tutto differente poiché viene attuata in una situazione istituzionale che vede un numero di pazienti variabile, anche in misura considerevole, da una seduta all’altra. Siamo di fronte a gruppi aperti con uno o più pazienti nuovi per ogni seduta. Questo tipo di gruppo è però continuativo cioè si pone come struttura psicoterapeutica disponibile, indipendentemente dalla possibilità di riempirlo, il riferimento mentale temporale è di ciascuna singola seduta anche se nel gruppo rimane “sempre un nucleo di persone che per un certo numero di incontri vive secondo la tradizione del reparto ed è in grado di trasmettere le norme del gruppo ai pazienti appena entrati”
Se prendiamo in considerazione la durata media del ricovero di quattordici giorni e ammettendo che un paziente partecipi ogni settimana alle due riunioni di gruppo previste, possiamo calcolare che ogni paziente parteciperà in media a tre sedute di gruppo durante il ricovero. I pazienti dell’ SPDC formano, inoltre, un gruppo estremamente eterogeneo in termini di sintomatologia, di diagnosi, di livello culturale, di livello socio-economico, di sesso, di età e presentano anche differenze a livello di motivazione e desiderio nell’accettare il trattamento. Un ulteriore elemento peculiare è dato dalla figura del o dei conduttori che hanno spesso contatti con i pazienti, al di fuori del gruppo, con un ruolo diverso
Malgrado queste caratteristiche, il gruppo in SPDC conserva una valenza terapeutica: innanzitutto questo tipo di psicoterapia consente di raggiungere un maggior numero di pazienti, poi la particolare ottica del gruppo aiuta a fornire una visione del paziente più completa, essendo la situazione di gruppo più vicina alla realtà sociale di quanto non lo sia la situazione duale e, in ultima analisi, il trattamento di gruppo consente un aumento di interazione tra pazienti e membri dello staff curante e tra pazienti stessi.
La nostra esperienza
La prima esperienza gruppale aveva come obbiettivo “rianimare la funzione empatica e quindi dare innanzitutto il messaggio ai componenti del gruppo che in loro era presente una vita interiore, e che questa loro “vita interiore” seppure con maggiore o minore esattezza, poteva essere compresa perché le persone nella sostanza sono simili”. Successivamente a questa esperienza, l’SPDC ha affrontato un periodo, come direbbe Khan, di maggese.
Che cos’è il maggese? È una tecnica agronomica oramai non più in uso, che prevede di lasciare il campo incolto per un anno, in balìa degli elementi, perché il terreno si rigeneri. Come per paradosso, il terreno, abbandonato a se stesso, non seminato, trattato come cosa morta, accumula acqua, rigenera la flora batterica e torna più produttivo. Khan sostiene che la nostra vita di tanto in tanto deve potere incontrare questa dimensione, di «maggese», che lui definisce per ossimoro «di ozio creativo». La pratica del maggese ha bisogno di una comunità di riferimento che non abbandoni la persona quando questa è a riposo, e la sappia riprendere quando torna dal maggese. Un po’ come i contadini facendo ruotare i terreni. In pratica: come in un rito di passaggio.
Questo passaggio è avvenuto poiché un nuovo gruppo di lavoro, si è avvicendato.
Tenendo bene a mente di non poter costituire un classico setting ma uno molto particolare perché operiamo all’interno in una realtà che si presenta decisamente frammentaria, ciò in considerazione soprattutto delle connotazioni di urgenza e trattamento dell’acuzie in SPDC, abbiamo comunque prestato estrema cura nel far si che si realizzassero gli unici parametri per cui il gruppo acquisisce caratteristiche di continuità. Ci riferiamo al luogo in cui avviene il gruppo, alla durata della seduta, al numero di sedute.
Il gruppo è stato spostato dalla sala soggiorno, non munita di porte e più chiassosa, alla sala dove si consumano i pasti. E’ stata scelta questa stanza anche perché rappresenta un po’ una metafora della “piazza del paese” in quanto i pazienti possono, nelle altre ore, fumare e chiacchierare, circolare, riconoscersi e aiutarsi. Più vita di relazione si induce, più in fretta si riattiva la rete sociale. Uno spazio specifico per i gruppi, ammessa la possibilità di ricavarlo da un punto di vista architettonico, avrebbe connotato lo stesso in senso più ambulatoriale, ma il migliore ambulatorio lo si fa in piazza restando con i pazienti in modo informale, raccogliendo le loro esigenze. Durante lo svolgimento del gruppo, le porte della piazza venivano chiuse per permettere una difesa del setting senza estromettere tuttavia chi aveva bisogno di uscire e di rientrare.
La seduta durava circa un’ora e si svolgeva due volte alla settimana, il martedì e il giovedì e si avvicendava al giro visita del lunedì, mercoledì e venerdì. Avveniva ad un orario quasi prestabilito.
Lo sviluppo delle interrelazioni era basato sul qui ed ora. Il gruppo inoltre era in un certo senso astorico: non esisteva in precedenza e non sopravviveva in quanto tale al termine della seduta.
Nonostante gli aspetti variabili che impongono un continuo adattamento alla situazione di reparto, il gruppo di psicoterapia ha presentato delle costanti : la figura dei conduttori, del recorder, il pre-gruppo e il post-gruppo. La scelta della co-conduzione, da parte di una psicologa gruppoanalista e di uno psichiatra, ci è sembrata particolarmente vantaggiosa perché non solo ci permetteva di garantire la continuità degli incontri ma anche perché ci dava modo di sostenerci reciprocamente in questo compito non facile, di ampliare i vertici di osservazione e di comprensione, di scambiarci un valido feedback sul proprio comportamento dopo il gruppo. La figura del recorder, ricoperta da un infermiere, consentiva non solo l’annotazione degli accadimenti gruppali ma anche che l’infermiere di turno potesse fungere da collante con i colleghi non presenti nel gruppo.
Per quanto attiene al pre-gruppo, esso veniva compreso nella quotidiana riunione d’équipe che per l’occasione veniva anticipata di mezz’ora. Aveva funzione di raccolta e di scambio delle informazioni tra gli operatori sulla situazione di reparto e in particolare sui nuovi pazienti ricoverati.
Il post gruppo è stato pensato come un momento in cui “rivedere al replay” il materiale emerso durante la seduta, sottolineando le dinamiche gruppali entrate in gioco e prendendo in considerazione gli atteggiamenti, le interazioni dei partecipanti. Questo spazio consentiva, inoltre, di dar voce a pensieri, emozioni, sentimenti, soprattutto quelli negativi, avvertiti durante la seduta e permetteva uno scambio di riflessioni e di punti di vista tra conduttori e recorder. Il post-gruppo si concludeva con la trascrizione del materiale più saliente nelle cartelle del paziente e degli infermieri e con un buon caffè catartico. Quando le condizioni di reparto erano favorevoli, tutti gli operatori partecipavano.
Ci siamo dati quattro obiettivi:
- osservazione diagnostica in un contesto gruppale;
- “psicoterapia” del revolving doors;
- intervento psicologico sulla crisi;
- contribuzione a creare un clima meno conflittuale e favorente il dialogo in reparto.
Desideriamo ora dare qualche nozione sulla tecnica di conduzione. Essendo la crisi una pausa, una piccola morte ed una nascita dolorosa, come dice Resnik, esige come presupposto di partenza la riscoperta di una funzionalità positiva configuratasi come vicinanza e appoggio. Il gruppo perciò viene gestito come un gruppo omogeneo. Siamo stati decisamente attivi nel chiamare, sostenere, interagire, riconoscere e far circolare i segnali affettivi che si presentano nello spazio relazionale. Ci siamo attivati personalmente, andando ad invitare i pazienti, stanza per stanza, cercando di esporre in modo chiaro il compito del gruppo e di guadagnarci la fiducia dei pazienti nel lasciarsi convincere a sperimentare qualcosa di nuovo. All’inizio di ogni seduta, abbiamo fatto pronunciare ad ogni partecipante seduto in cerchio il proprio nome come primo segnale nel venire riconosciuto nel diritto di esistere ed avere uno spazio affettivo e relazionale. Abbiamo inoltre chiarito il ruolo del recorder con quaderno e penna per evitare l’innesco di deliri o di sospetti paranoici.
Nella fase iniziale, non abbiamo proposto un tema, un preciso argomento. I pazienti venivano invitati a presentare agli altri gli aspetti personali di se stessi, tralasciando però le tematiche che riguardavano la propria terapia farmacologica e/o le proprie dimissioni. Questo perché l’argomento sarebbe stato di difficile condivisione con gli altri pazienti. Tentare di comunicare agli altri una parte della loro soggettività e in contraccambio comprendere quella degli altri, costituisce il compito implicito di questo gruppo. Molteplici volte abbiamo notato quel fenomeno che Foulkes chiama risonanza cioè un contatto emotivo esercitato dal fantasma individuale, ora di un paziente ora di un altro, sull’inconscio degli altri partecipanti che erano in grado di cogliere aspetti del vissuto della persona che parlava. Entrare in risonanza ha, inoltre, un valore di conoscenza di se stessi cioè un paziente vedeva se stesso attraverso il riflesso dell’interazione degli altri membri del gruppo.
La conversazione prendeva avvio spontaneamente, attraverso la narrazione di uno dei membri, l’esternazione di bisogni, preoccupazioni, disagi. Talvolta prendeva il via in modo libero, talvolta si bloccava. A quel punto si interveniva con sollecitudine come se “ apportassimo energia a chi non ha più energia vitale” per continuare ad esistere. Possiamo collegare questo intervento alla funzione di réverie di Bion ovvero alla capacità di recepire comunicazioni del paziente, di comprenderle e di restituirle al gruppo dopo averle metabolizzate, concedendo al paziente e al gruppo la possibilità di sperimentare una crescita in un luogo e tempo “sufficientemente buoni”. La tipologia di conduzione usata è certamente direttiva ma ciò ci ha consentito di lavorare su un fattore terapeutico fondamentale: la coesione. Non è stato semplice e in genere non lo è, ma il tentativo è stato quello di promuovere la coesione intervenendo in modo da favorire gli interscambi tra i partecipanti, incoraggiandoli a parlare e sostenendoli; assicurandoci che tutti fossero inclusi cioè che a ciascuno venisse riconosciuto uno spazio di parola e di ascolto e infine trovando il significato positivo per ogni intervento anche del paziente più distruttivo, dissociato o bizzarro in modo da farlo sentire importante per il gruppo e mostrandogli così una parte significativa, anche se annerita, della sua persona.
Alcune vignette cliniche
Vorremmo sottoporre alcune vignette cliniche. Si tratta di ricostruzioni che molto risentono della selezione operata su un materiale sempre ricco e coinvolgente. I nomi dei pazienti sono di fantasia e i titoli delle sedute sono dati dall’incontro post-gruppo.
Fegato, che fatica!
Dopo il pre-gruppo e il “giro stanze”, ci avviamo verso la sala da pranzo dove alcuni pazienti hanno già iniziato a sistemare le sedie. Partecipano 12 pazienti (Anna, Barbara, Andrea, Lucio,Giovanni, Antonio, Giusi, Titti, Pietro, Giacomo, Aurelio, Vittorio) su 18 ricoverati, due conduttori (psicologa e psichiatra), l’infermiere recorder, due infermieri tirocinanti.
Chiusa la porta, una volta che tutti sono seduti, la psicologa dà il benvenuto a tutti, ricorda le regole del gruppo e invita i partecipanti a dire il proprio nome.
Lucio si alza: Dov’è il dottor T? E’ rimasto fuori, voglio uscire.
Conduttrice: Chi è il dottor T?
Lucio: Devo fare una visita al fegato, non sta bene.
Conduttrice: Non appena arriverà il Dottor T. andrà subito a fare la visita al fegato.
Lucio si tranquillizza e si risiede.
Barbara: Io sono Barbara, soffro di un disturbo borderline di personalità. Sono qui perché….. beh a dire la verità non lo so proprio bene, non lo non credo di aver fatto nulla di male.
Anna la interrompe: Cosa hai fatto?
Barbara: Mi sono presa una cotta per il mio educatore, sono scappata dalla comunità per cercarlo.
Anna: L’hai trovato?
Barbara: Si ma lui non mi vuole così sono andata al mare e sono entrata in acqua (è novembre inoltrato) poi sono arrivati i poliziotti i medici e mi hanno portato qui.
Giusi: Hai tentato il suicidio per amore vero? Anch’io ci ho pensato qualche volta ma non mai avuto il coraggio di farlo.
Andrea: Con il mio lavoro ne ho visti tanti che l’hanno fatta finita e in questi giorni l’ho pensato anch’io. Ne vado a prendere tanti di giovani sulla strada. E’ una strage, sempre una strage.
Pietro: Non c’è più rispetto per questo mondo. Non esiste più l’Europa unita, l’America è una finta. Chissà dove andremo a finire.
Barbara: posso raccontarvi la mia storia? Vorrei raccontarvi la mia storia.
Il gruppo fa cenno di si con la testa.
Barbara: Grazie, per me è importante che mi conosciate. Ho un fratello più grande di me di qualche anno, fa il ferroviere, sta sempre fuori casa. Mio padre non esiste cioè nel senso che c’è ma e come se non ci fosse. Lui e mia madre sono sempre stati tipi alternativi, figli dei fiori insomma cioè hippy meglio sfigati, io e mio fratello non li chiamavamo mamma e papà ma con il loro nome. Non ci sono mai state regole, mio padre andava e veniva, mia madre aveva tanti fidanzati. Uno di quelli è stato il mio fidanzato quando avevo 14 anni, con lui mi sono fatta il primo tatuaggio (sposta il colletto della camicia e mostra una rosa gialla con un lungo gambo verde), la prima canna, la prima… avete capito no? Sono scappata di casa tante volte, le assistenti sociali ci hanno portato via, adesso lavoro in una cooperativa….. Non vedo spesso mia mamma, boh non so adesso dovrebbe avere un fidanzato senegalese è diventata afro anche lei, mio padre invece si è trasferito al sud, mio fratello è l’unico sano. Mi piacerebbe vederlo di più, stare di più con lui ma c’è poco per via del lavoro. Mi sento sola. Vorrei qualcuno che…..
Barbara scoppia a piangere, Giovanni le si avvicina e le dice: Se non ce la fai puoi anche uscire un po’ e ritornare quando ti senti meglio, vero dottoressa?
Conduttrice: Certo e grazie Barbara per la sua testimonianza.
L’intervento di Giovanni e della dottoressa sembrano rasserenare Barbara che riesce a contenere le sue emozioni che anche il gruppo condivide e si tranquillizza.
Antonio che aveva alzato la mano, trova ora il suo spazio e dice: Anch’io non ho un buon rapporto con mia madre. Pochi giorni fa abbiamo litigato furiosamente, è intervenuta la polizia e ho fatto una settimana di TSO. Adesso sono qui spontaneamente vorrei tornare a casa presto perché ho bisogno di lavorare.
Titti si guarda in giro poi alza la mano e avuta parola dice: Vorrei…. Vorrei dire qualcosa anch’io ma….. ho difficoltà a parlare a della gente che non conosco. Il suo silenzio dura pochi attimi poi si rivolge al gruppo e dice: le vostre storie mi sono piaciute tanto cioè anch’io ho avuto problemi con la mia famiglia e almeno un paio di volte ho pensato al suicidio ma non ho avuto il fegato per farlo. Mi faccio male per non stare male, non so chiedere aiuto. I medici mi dicono che dovrei imparare a chiedere aiuto quando mi accorgo di stare male ma io penso che se mi accorgessi di stare male allora starei già bene ma se sto male e non c’è nessuno che mi vede come faccio ad accorgermi di stare male?
Conduttrice: questa è una bella domanda, qualcuno ha qualcosa da dire in proposito?
Aurelio che sembrava essere altrove, alza la mano e dice: Io ho qualcosa da dire. Io credo che si dovrebbe avere una forza dentro di te che ti aiuta a capire quando ci sei e quando stai per andare fuori. In passato ho avuto problemi di droga, mi sono fatto per tanto tempo, non ho mai chiesto a nessuno come stavo o se mi aiutavano. Un giorno sono finito all’ospedale di brutto, non ricordo cosa mi era successo ero troppo fatto, mi hanno ricoverato. In quel letto ho capito che ero….. che non potevo andare avanti così, non potevo stare…. Mi è venuto in mente di farla finita ma poi ho pensato che io sono sempre stato uno con delle possibilità, mi sono quasi laureato, e ho trovato la forza di chiedere aiuto. Il dottor F. mi ha aiutato ad entrare in comunità, ora ne sono fuori e sono pulito da diversi anni.
Anna: La psichiatria a me non mi può aiutare, non può risolvere il fatto di avere un marito stronzo, due figli deficienti che si sono lasciati plagiare e che aspettano solo che io faccia tutto per loro. Se non ci sono io non si lavano neanche un calzino. Mi sa che quando esco di qui chiedo il divorzio anzi no mi trovo un amante.
Conduttore: Anna lei è una donna profondamente religiosa, lo dice ma non lo pensa davvero.
Anna: Si si che lo penso e credo anche che sia la soluzione più giusta, la psichiatria non può fare niente.
Conduttrice: Cosa può fare la psichiatria?
Barbara: Il problema è capire quando stai male, quando hai bisogno di aiuto e poi…. Ti fai aiutare.
Giovanni:Anche chi è laureato può stare male e aver bisogno dello psicologo. A me è successo. Io vado da una dottoressa e continuerò ad andarci anche quando uscirò da qui. Quando sto male, c’è, e se mi dice che è meglio che mi ricoveri, io lo faccio come in questo caso.
Titti: Io vado dalla dottoressa M. è brava ma faccio fatica a mettere in pratica quello che mi dice, sono sicura che ha ragione ma credo che se faccio quello che mi dice poi mi vengono i capelli bianchi. Sorride.
Giovanni: Lo psichiatra o lo psicologo ti posso aiutare ma tu ci devi mettere del tuo. Dottore sono un po’ stanco, voglio restare ma….. durerà ancora molto questo incontro?
Conduttore: Ancora poco, cerca di resistere, se proprio non ce la fai, esci a fumarti una sigaretta ma rientra subito dopo.
Vittorio: Anch’io sono stanco, stanco di vivere così, in un modo che….. non lo so per me non ha senso. Che vita è la mia? Lavoro, casa, casa lavoro.
Anna: come io, lavoro casa casa lavoro e nessuno mi dice mai grazie.
Titti: E’ il destino, tutto è scritto nel destino.
Giovanni: No non è tutto scritto il destino si cambia, ce lo facciamo noi.
Aurelio: Sono dello stesso parere.
Conduttrice: Giacomo, lei cosa pensa in proposito?
Giacomo: Io credo che una parte la fa la fortuna ma se tu non aiuti la fortuna, lei non ti aiuterà. Cioè se non giochi non vincerai mai.
Conduttore: Se non giochi non puoi vincere, bravo Giacomo è proprio vero!
Arriva la chiamata per la visita di Lucio che si alza ma un po’ a malincuore dice: Anch’io avrei avuto qualcosa da dire. Ma devo andare. Grazie.
Il clima del gruppo si modifica, qualcuno comincia a percepire che la seduta sta per finire e molti non ci saranno la prossima settimana.
Conduttrice: E’ vero, ma l’esperienza che abbiamo fatto insieme non ce la porterà via nessuno.
Conduttore: Tutti abbiamo giocato, tutti abbiamo vinto.
Sono le 12, il pranzo è arrivato, la conduttrice ringrazia tutti per la partecipazione al gruppo e per i contributi dati e chiude l’incontro rinviando l’appuntamento alla settimana prossima. I pazienti e i conduttori aiutano a riordinare la stanza per il pranzo.
Dov’è suo marito?
Dopo il giro per le stanze della psicologa, i pazienti, 8 (Roberto, Carlo, Luigi, Jessica, Giulio, Anna, Stefania, Gioia) su 12 ricoverati, vanno verso la sala da pranzo e uno di loro aiuta a sistemare le sedie. Manca lo psichiatra, ci sono 4 infermieri (due allievi)e io mi rendo disponibile a fare da recorder.
La dottoressa entra nella stanza, c’è grande confusione, i pazienti discutono animatamente tra di loro, c’è chi fuma, chi telefona, due pazienti Jessica e Gioia, entrambe incinte, litigano furiosamente tra di loro. La dottoressa le divide, Giulio nota la mancanza dello psichiatra e rivolgendosi alla dottoressa chiede: Dov’è suo marito?
Anna scoppia a ridere: Ma non è suo marito, se lo fosse povera dottoressa!
Giulio: Dov’è suo marito? Io l’ho visto.
La stanza è ancora piena di confusione, Jessica e Gioia riprendono ad insultarsi anche se da lontano, Luigi e Carlo continuano a fumare e Stefania e Roberto discutono animatamente di tradimenti. Che caos! Così non si comincia. I miei colleghi stanno per alzarsi, sono tre uomini, non ci vorrà molto a riportare il silenzio ma la dottoressa li guarda e fa capire anche con un gesto della mano che non vuole che lo facciano. Nel caos, la dottoressa inizia a cantare una canzone di uno spot pubblicitario accompagnandosi con lo schiocco delle dita. Non capisco, la guardo, sono senza parole, che sta facendo? ma dopo poco mi accorgono che anche gli altri pazienti la stanno guardando e uno inizia a cantare e poi un altro e un altro, adesso tutti cantano. Finita la canzone la dottoressa ringrazia della partecipazione e dice: Ora che ci siamo tutti possiamo finalmente iniziare e ricorda le regole per partecipare al gruppo. Non fa in tempo a finire il giro di presentazione che Giulio chiede di nuovo: Dov’è suo marito?
Il gruppo scoppia a ridere.
La dottoressa chiarisce che il dottore oggi non sarà dei nostri perché ha fatto il turno di notte ma dalla settimana prossima sarà di nuovo presente.
Giulio non ci crede pensa che si siano lasciati o che sia sparito misteriosamente, forse è stato rapito, come l’altro dottore quello alto alto con il barbone che faceva i gruppi prima di lei.
La dottoressa dice che non c’è nessun mistero, il dottore tornerà la settimana prossima e il dottor R. non è stato rapito, è andato a lavorare al CSM.
Gioia: E’ vero, non l’hanno rapito, che peccato!, è quello che mi ha rinchiuso qui dentro.
Carlo: Questa notte non ho dormito, pensavo alla mia ex fidanzata.
Roberto: Le donne sono tutte puttane guardano solo la macchina, i soldi che hai in banca e ai regali. Se sei un poveraccio rimani solo.
Stefania è molto arrabbiata: Non è vero niente di quello che stai dicendo, io non guardo ai soldi eppure sono stata tradita.
Gioia: A me mi ha tradito il padre di mio figlio, non lo so, non l’ho visto ma sono sicura perché a sua madre non piaccio.
Jessica: Ti ha tradito perché sei matta!
Gioia: Matta sarai tu, vai via che puzzi, non respiro.
Dottoressa: Smettiamola di offenderci, non serve a niente, usiamo piuttosto tutta questa energia per capire come mai tutti questi ex sono ancora qui e fanno ancora male.
Gioia racconta la sua storia, i brutti rapporti con la famiglia, la fuga da casa, il fidanzato che l’ha picchiata, i suoceri sempre in mezzo ai piedi che decidono tutto senza tenere in considerazione il suo pensiero, il ricovero. Alza la voce e poi scoppia a piangere. Giulio le si avvicina per farle una carezza, Gioia ha paura e si alza dalla sedia. La dottoressa rassicura Gioia che nessuno le vuole far del male, ringrazia Giulio per il suo gesto ma gli chiede di tornare al suo posto.
Carlo: La mia storia è finita due anni fa ma io ci penso ancora, mi fa male dentro.
Stefania: Perché vi siete lasciati?
Carlo: Non ci capivamo, io volevo delle cose, lei delle altre ma non ce le siamo mai dette.
A questo punto, rompendo la consegna del silenzio, interviene un mio collega tirocinante che dice: E’ difficile stare in due, ci sono un mucchio di cose su cui si deve venire ad un compromesso. Anche a me è successo che non ci capivamo, ci siamo lasciati, presi, abbiamo litigato, parole parole ma alla fine tutto come se niente fosse e ci siamo lasciati e io sono stato male per un po’.
Anna: Io potrei essere la mamma di tutti, oramai i giovani di oggi si lasciano per niente, ai miei tempi non era così, si facevano tanti sacrifici e quello che diceva la moglie non era tenuto in conto.
Dottoressa: Sembra che queste storie evidenzino la difficoltà di non sentirsi ascoltati.
Jessica: E’ vero nessuno mi ascolta, le mie sorelle non mi vogliono a casa, sono sola e con un bambino in arrivo.
Stefania: E il padre del bambino?
Jessica: Lui se n’è andato.
Stefania: Che bastardo! Lo vedi che anche gli uomini sono….non dico la parola perché la dottoressa non vuole le parolacce. Dopo qualche attimo di silenzio aggiunge: anch’io non mi sento ascoltata, mia sorella non mi capisce e spesso finiamo con il litigare. Comunque a volte anch’io non ascolto gli altri. E’ fatica ascoltare, a volte non ne hai voglia. Vorresti fare altro e invece ti tocca sentire.
Dottoressa: Io credo che con educazione si possa dire scusami ma adesso non posso/non riesco ascoltarti, ti richiamo ci risentiamo poi, …. Che ne pensate?
Luigi: Lei dice tanto bene ma non è semplice.
Anna: Perché?
Luigi: Perché non è facile dire no.
Anna: E’ vero. Io volevo farmi suora ma mia madre voleva che studiassi, che diventassi maestra come lei, e io non sono riuscita a dire no e sono diventata maestra. Ora sono in pensione però ho avuto anche buoni studenti……
Il gruppo si avvia alla conclusione
Anna: Questa cosa del gruppo è strana cioè non avevo mai partecipato ad un gruppo però …..sono stata bene.
Stefania: Anch’io.
Giulio: E’ brava anche se non c’è suo marito.
Dottoressa: Grazie, abbiamo faticato un pochino a partire ma mi sembra che abbiamo fatto un buon lavoro. Grazie a tutti per la vostra partecipazione.
Recorder: (Io penso che sei strana dottoressa, ho da chiederti diverse cose dopo, però mi ricordi tanto quello alto alto con il barbone, strano pure lui!)
Note a margine
La figura degli infermieri può indubbiamente garantire una certa difesa del setting perché potrebbero esercitare una funzione normativa. Non è stato però chiesto loro di intervenire a “sedare” il caos iniziale poiché riteniamo che il ruolo fondamentale degli infermieri nel gruppo sia quello di infondere ai pazienti la sensazione di compartecipazione e di interesse alle loro vicissitudini. Qualcosa che vada oltre all’atto assistenziale.
Conclusioni
In questo anno di “sperimentazione”, è emersa la difficoltà di trasportare l’esperienza del gruppo al gruppo allargato dello staff. Nel nostro SPDC la presenza del gruppo risulta essere ben apprezzata dall’équipe e dai pazienti ma allo stesso tempo non è ancora una realtà ben raccordata con il funzionamento del reparto stesso. Il gruppo infatti non sembra ancora ricoprire un posto particolare all’interno della cultura istituzionale in cui operiamo. L’invio dei pazienti viene fatto tuttora personalmente dai conduttori mantenendo quindi una sensazione di separazione che veicola il valore implicitamente attribuito a questa terapia dal gruppo allargato. Per contro però sta lentamente crescendo la partecipazione al gruppo da parte degli infermieri, dei tirocinanti e dei medici e il post-gruppo è uno spazio sempre più aperto alla partecipazione di tutto il personale. In modo particolare si è creato un post-post-gruppo cioè il materiale emerso in seduta viene trasmesso al momento delle consegne, al cambio turno, sia dagli infermieri sia dai medici.
Vorremmo congedarci dicendo che “fermarsi per pensare” è un modo per concludere un’esperienza ma anche di fare il punto su di una situazione che è ancora in divenire e che richiederà ulteriori riflessioni. In questo lavoro ci siamo proposti di mostrare come lo stare in gruppo permetta di cogliere attraverso gli occhi che vedono, le orecchie che sentono, le parole dette e non dette anche il pensiero di chi momentaneamente non è in grado di pensare o pensa esclusivamente a modo suo. Dare significato alla sofferenza attraverso le narrazioni di gruppo dei pazienti acuti significa fondamentalmente tendere all’accoglienza e alla comprensione che favorisce la modificazione della situazione. Sebbene consapevoli che il tempo piuttosto esiguo a nostro disposizione non consente di ottenere risultati di lunga durata cionondimeno sappiamo che il lavoro svolto può consentire al paziente il consolidamento e la ripresa delle cure nelle altre strutture del Dipartimento.
Ramona Di Muro, psicologa gruppoanalista Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC) ASL Rimini.
Marco Sancini, psichiatra dirigente 1° livello SPDC ASL Rimini
A. Claudio Aurigemma, psichiatra direttore responsabile SPDC ASL Rimini
Note Bibliografiche
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