Introduzione
Il Centro Diurno per tossicodipendenti si trova a Rimini ed è gestito dalla Cooperativa Centofiori in collaborazione con l’AUSL di Rimini.
1)Il programma terapeutico è distinto in fasi di 6 mesi e prevede delle regole da seguire.
2) I familiari sono coinvolti attivamente e partecipano ad una assemblea che controlla l’applicazione delle regole e programma l’attività settimanale. Questa assemblea si tiene il lunedì; separatamente si riuniscono i famigliari e gli utenti in trattamento.
3) Il mercoledì vi sono tre gruppi di psicoterapia coordinati con tecnica operativa.I gruppi prevedono la parteciazione dei famigliari suddivisi in gruppi diversi.
4) Il venerdì ogni 15 giorni vi è un gruppo multifamigliare sulla comunicazione coordinato con tecnica operativa.
5) All’interno del centro diurno vi sono inoltre attività di tipo lavorativo che sono dirette da capi settore della cooperativa Centofiori.
6) Ogni tre mesi si riunisce una assemblea genetale che prevede la partecipazione di tutte le componenti del centro diurno: utenti,famigliari, operatori terapeutici e capi settore.
Dall’inizio del Diurno si è avviata una attività in collaborazione con l’Enaip di formazione professionale, all’interno di questo progetto si è pensato ad una attivita teatrale che coinvolgesse tutti gli utenti del Diurno.Per lo svolgimento di questa attività abbiamo preso contatto con Alessanrdo Gentili ed in seguito con Alberto Grilli e con il teatro Due Mondi di Faenza. Questi corsi si sono svolti ogni anno a partire dal 1988.
L’ipotesi di lavoro
Fin dall’inizio abbiamo lavorato, nel campo di questa attività da noi poi chiamata “Teatroterapia”, con una scelta di fondo: divisione delle competenze; ossia la parte specificamente teatrale veniva gestita da Gentili e Grilli in assoluta autonomia e con criteri di tipo estetico, mentre la parte terapeutica veniva affidata ai coordinatori di gruppo che lavoravano nel centro. II coordinamento delle attività veniva effettuato tramite la partecipazione di Grilli e Gentili alle riunioni di Equipe in cui si discuteva il processo compessivo del Centro Diurno.Questa partecipazione di volta in volta ha generato progetti che si sono anche proiettati sull’esterno, ad esempio una pantomima per le strade di Rimini con Marco Cavallo come protagonista nel 1988 e numerosi interventi nella Comunità Terapeutica di Vallecchio.
L’ipotesi su cui abbiamo lavorato è che ci fosse una stretta analogia tra la produzione teatrale e l’attivita onirica. Non è certamente una ipotesi nuova, ma noi abbiamo pensato di renderla funzionale ad un processo terapeutico. Detto molto brevemente noi pensiamo che il processo terapeutico porti ad una presa di coscienza che prima mancava. In questo ci sentiamo all’interno del ‘programma’ di Freud: “dove c’era l’Es ci sara l’Io”. L’uscita dalla coazione a ripetere di un qualsiasi sintomo e la possibilita di cambiare strategia di azione sono il nostro obiettivo.
Noi non lavoriamo per l’adattamento passivo alla realtà, ma per un adattamento attivo (come dice Picon Riviere), cioè l’aquisizione della possibilita di cambiare le realtà che ci condizionano. Naturalmente in questa prospettiva la interpretazione dei sogni diviene centrale.
La Traumdeutung è nella psicoanalisi strettamente legata alla seduta ed al rapporto con l’analista, infatti è nel processo analitico che “il geroglifico” del sogno acquista un significato. La nostra esperienza è un tentativo di interpretazione di un “sogno di gruppo”, effettuato all’interno di sedute gruppali, con gli strumenti della concezione operativa di gruppo.
Metodi
L’intervento di Teatroterapia ha utilizzato diverse tecniche, la tecnica più sperimentata è stata il ‘teatro delle ombre’. Questa tecnica prevede un laboratorio teatrale, che nel nostro caso è stato gestito da Alessando Gentili e Alberto Grilli. Nel laboratorio vengono forniti degli stimoli per cominciare un lavoro associativo di gruppo. Gli stimoli possono essere delle frasi, la lettura di testi, l’osservazione di gesti e qualsiasi altra cosa che possa sollecitare un lavoro associativo di tipo analogico sul modello delle associazioni libere psicoanalitiche.
Il gruppo, lavorando nel laboratorio ed impadronendosi della tecnica del teatro delle ombre simula il lavoro onirico trasformando gli stimoli esterni in immagini, sequenze di azioni, vere e proprie “scene”.
In questa fase Alberto ed Alessandro funzionano un po’ da “censura onirica”, nel senso che lo “specifico estetico” impone la sua forma alle scene che il gruppo produce, proprio come nel lavoro onirico i contenuti del pensiero vengono modificati ed ad esempio il padre può diventare un cavallo (caso del piccolo Hans), ecc.
Questa capacità di metaforizzare può essere cosciente o inconscia, sottesa come nel nostro caso da un inconscio di gruppo, o meglio, come dice il prof Bauleo, da un latente gruppale.
Le scene vengono presentate a tutto il gruppo ogni 15/20 giorni. Questa è la fase della rappresentazione onirica. La scena prende forma e le ombre assumono la realta dello spazio scenico. La rappresentazione, che non supera mai i 30 minuti, avvolge il gruppo in un enigma, le ombre si caricano delle proiezioni più arcaiche. Immagini della scena primaria, fantasmi originari si liberano in uno spazio-tempo delimitato e danzano le loro vicende.
Le emozioni profonde che non hanno avuto la possibilita di rappresentazione si esprimono inizialmente in queste storie di ombre. Ma tutto il nostro lavoro, come abbiamo detto, va nella direzione della presa di coscienza e del cambiamento strutturale, non nella emozione catartica, che poi non produce nessuna riflessione, ma allevia semplicemente una tensione.
Per questo motivo il nostro metodo prevede che al termine della scena si riunisca il gruppo con un coordinatore .Il gruppo ha come compito parlare della scena appena vista, delle emozioni vissute e di qualsiasi altra cosa si vogli parlare. Il coordinatore interpreta il latente e lo rende manifesto al gruppo così l’enigma può essere affrontato e le ombre divengono immagini e poi concetti per pensare situazioni
emotive che non erano state simbolizzate.
Si tratta di un metodo per aprire il flusso del pensiero e permettere al desiderio di liberarsi dai lacci di emozioni fortissime che hanno apppesantito come piombo le ali della fantasia, rendendo la realtà troppo reale: iperreale, iperconcreta. La realtà dei tossici.
In sostanza pensiamo alle situazioni remote che si sono prodotte nella storia di un singolo individuo, situazioni traumatiche, violenze subite, ma anche momenti di confusione non ben elaborati, come ad esempio la situazione descritta da S. Ferenczi nel suo articolo sulla confusione delle lingue fra adulti e bambini. In questo fondamentale articolo Ferenczi ci dice che ad un certo punto della vita il linguaggio della passione e quello della tenerezza possono confondersi e produrre malintesi che, se non vengono chiariti, hanno la funzione di veri e propri traumi; traumi che però vengono rimossi, forse dissociati, dalla coscienza e tuttavia manifestano la loro presenza sotto forma di sintomi.
Nel caso di una violenza sessuale, ad esempio, si produce una dissociazione della coscienza ed a volte la formazione di una doppia personalità, che si evidenzia con l’uso di droghe dissociative; anche la confusione diviene l’emozione che esprime una modalità difensiva come la frammentazione dell’oggetto persecutorio .Tutte queste ed altre vicende vanno a costituire quello che A. Bauleo chiama il “gruppo interno” e cioè l’insieme delle emozioni, rappresentazioni legate alla storia individuale di ciascuno: ombre della mente che ci portiamo sempre con noi.
Questi gruppi interni si attivano in situazioni di gruppo reale, per cui i comportamenti presenti costantemente si riallacciano ad un repertorio passato, ma nello stesso tempo situazioni nuove aggiornano il repertorio cambiandone la forma. Più profonde sono le situazioni gruppali che si creano, più primitive sono le ombre che si mettono reciprocamente in gioco, dato che in un gruppo si instaura una rete di identificazioni proiettive ed introiettive incrociate fra i singoli membri. Questa rete è il latente gruppale ed è da questa rete che provengono le scene del teatro delle ombre: il sogno del gruppo.
Risultati
In circa quattro anni (1990-94) hanno usufruito di questa possibilita circa un centinaio di utenti; a questi bisoogna aggiungere anche i loro familiari, che sono stati coinvolti in alcune rappresentazioni con i gruppi succesivi.
In particolare poi, ogni anno in un paese sull’Appennino c’era una settimana dedicata esclusivamente al teatro. Alessandro ed Alberto si fermavano per tutto il periodo e i terapeuti turnavano fra loro. Al termine della settimana venivano invitati i familiari e per loro veniva rappresentato lo spettacolo. Al termini dello spettacolo che era anche un percorso nel paese e fra le ombre si svolgevano diversi gruppi terapeutici che dovevano discutere delle emozioni provate ed anche di qualsiasi altra cosa volessero parlare.
In un primo momento mettevamo genitori e figli marito e moglie nello stesso gruppo, ma poi abbiamo visto che questa iperealtà dei legami scatenava una forte catarsi (pianti, commozioni forti, ecc.), ma impediva l’elaborazione simbolica e quindi il cambiamento di vincoli simbiotici o ambigui. In seguito abbiamo separato le relazioni, mettendo i figli in un gruppo e i genitori in un altro, mariti in uno, mogli in un altro.
Questo cambiamento è stato pensato da un duplice punto di vista: per prima cosa abbiamo un piano terapeutico, che riferendosi alle elaborazioni di E. Pavlovscki ha considerato la catarsi come un effetto di una identificazione proiettiva massiccia, senza la possibilità che si formasse uno spazio per il pensiero. In questa dimensione la catarsi assume un aspetto evaquativo, senza produrre una presa di coscienza e quindi una modificazione stabile del vincolo.
Ad esempio una scena poteva produrre una emozione tale che i presenti non si rendevano conto che tale scena in realtà evocava un’altra scena, quella che aveva prodotto l’emozione, ma agivano come se il “litigio” fosse quello di “quella volta” senza discriminare la situazione diversa.
Invece l’azione terapeutica si è avuta quando dalle scene i presenti hanno potuto pensare le emozioni ed in particolare hanno potuto chiedersi: “guarda in questa situazione mi arrabbio come se fosse quella volta”.
Dalla possibilita di pensare le emozioni provate ‘come se’ fossero vere nasce anche la presa di coscienza che certe situazioni passate possono cambiare di importanza, diventare leggere. Le ombre liberate nello spazio scenico divengono innoque; qualcuno anche può dire “anche io ho il tuo stesso problema” ed allora l’indicibile diviene detto e perde la gravità.
Da un altro punto di vista, quello teatrale, di cui non sono esperto, abbiamo letto alcuni testi di B.Brecht ed in particolare le sue teorie sulla tragedia ed il suo proporre anche nel campo teatrale una rivoluzione anti-aristolelica. Ricordo brevemente che Aristotele nella Poetica dice che il fine della tragedia è la catarsi e che gli spettatori, identificandosi negli attori che recitano vicende terribili, si purificano da quei sentimenti che anche loro provano ed al termine dello spettacolo possono ritornare alle loro occupazioni di tranquilli cittadini.
E’ chiaro come in questa dinamica si possa evidenziare il ruolo del teatro come sublimazione del capro espiatorio che a sua volta sublimava il sacrificio umano. Ma ci dice Bertold Brecht, in questo caso il teatro mantiene l’ordine costituito: non serve per pensare, non ha nessuna funzione pedagogica. Per ottenere questo scopo bisogna stimolare non l’identificazione, ma lo straniamento perché solo in questo modo lo spettatore è indotto a pensare alle vicende rappresentate ed a prendere coscienza della sua situazione.
Questi obiettivi ci sono sembrati sovrapponibili agli obiettivi terapeutici per questo abbiamo cambiato la struttura dell’intervento. Quindi, in sostanza il risultato di questa attività è stata la formazione di un pensiero critico che si rivolge più al mettere in scena i fantasmi piuttosto che a metterli in atto; e questo mettere in scena libera la produzione desiderante e produce diverse concatenazioni del desiderio, nuove aggregazioni e forme della azione comunicativa; nuovi schemi di riferimento operativi.
Conclusioni
Purtroppo questa esperienza è ora terminata. Non c’è molto interesse per il teatro nel tempo della televisione, figuriamoci per la teatroterapia! E inoltre anche nell’ambito del coordinamento regionale si parla di più del risultato di 10 milligrammi di metadone in più che dello straniamento o della presa di coscienza. In comunità come quelle di San Patrignano si è agita la violenza, con l’omicidio di Roberto Maranzano e non c’è stato modo di rappresentarla in un teatro della crudeltà, come faceva il Living in Brasile.
Forse la mediatizzazione di San Patrignano o di altre comunità salvifiche, è la tragedia Aristotelica dei nostri tempi: i bravi borghesi piangono e si purificano e poi tutto ritorna come prima. Nulla cambia.
Cosa può fare invece il teatro? Può far pensare; può conquistare territori e piazze, aprire menti ed occhi; perché un gesto, un ballo, un racconto concitato, una sagoma di cartoncino che proietta un ombra sul muro, evocano una dimensione immaginaria in cui fluisce la vita.
(Pubblicato su Psychomedia)