L’argomento che oggi affronteremo insieme, è per vedere se tra tutti noi possiamo dare un giro di spirale alle linee di pensiero del nostro schema concettuale di riferimento sulla violenza istituzionale e la violenza familiare.
La violenza nella scena familiare è molto diffusa in tutti i paesi, al di là del fatto che oggi sembri una “moda giornalistica”, in realtà è un’emergenza sociale.
Ci dicono che questo dipende da una molteplicità di fattori sia economici, politici, sociali e culturali che psicopatologici e ne sono attraversate tutte le classi sociali.
Possiamo affermare che è un effetto sintomatico della trasformazione della famiglia e delle istituzioni.
Nell’epoca della globalizzazione, paradossalmente, assistiamo ad una maggiore localizzazione e provincializzazione, che gioca un ruolo importante su questi cambiamenti.
Sappiamo da molti studi realizzati sul tema della violenza, che la violenza viene esercitata sulle persone più deboli: bambini, donne, anziani.
La violenza intrafamiliare tra i coniugi o tra i componenti del nucleo familiare, si manifesta attraverso comportamenti abusivi che vanno dalle aggressioni fisiche, ai maltrattamenti di carattere psicologico fino alle aggressioni sessuali.
Entrano in campo come variabili, che incidono sui fenomeni di violenza anche l’alcolismo, la tossicodipendenza e la patologia psichiatrica.
Far emergere gli episodi di violenza tra i componenti della famiglia non è facile, in quanto questi episodi vengono occultati o nascosti da un sentimento di vergogna.
In alcune situazioni si verifica che n’è la vittima n’è il carnefice sono consapevoli che, potrebbero esserci altri tipi di rapporto.
L’umiliazione che sentono nel raccontare questi episodi, fa sì che da parte del professionista o degli operatori ci debba essere un atteggiamento non giudicante (non colpevolizzare), senza pregiudizi (non etichettare n’è stigmatizzare), ma con un’attitudine verso l’altro di empatia e di ascolto, per mettere in luce le verità e le possibili cause di questi atti violenti.
La violenza attraversa anche le istituzioni, sia che la consideriamo sul versante psicologico, cioè come una nozione interna al soggetto, sia che la intendiamo come istituzione esterna.
Mi sembra che nell’attualità queste organizzazioni istituzionali siano diventate sempre più repressive, con caratteristiche autoritarie (verticistiche) che tendono alla burocratizzazione degli interventi.
Allo stesso tempo, osserviamo una grande sofferenza e anche un’impotenza degli operatori, dal momento che si stanno riducendo gli spazi (se non addirittura mancano), per riflettere e confrontarsi sul lavoro quotidiano e sulla elaborazione delle ansietà e dei conflitti che il lavoro risveglia, in particolar modo quando si trattano e si toccano queste tematiche sulla violenza.
Prenderò spunto da alcuni autori che hanno pensato direttamente o indirettamente su questa problematica.
Partirò dall’assunto di Freud in cui afferma che, il fondamento della vita psichica, è basato sulla tendenza del soggetto a soddisfare il piacere ed evitare il dolore e il dispiacere. Si è interrogato, nei suoi diversi scritti, e continuiamo ad interrogarci sulla violenza e sull’aggressività.
Come voi sapete, Freud mantiene l’idea che nell’essere umano sono presenti due pulsioni (dualità pulsionale): Eros e Thanatos intese come metaforizzazione delle forze che legano e slegano.
Questa dualità pulsionale agisce nei vincoli che il soggetto intraprende con i suoi simili. Nei tre saggi sulla Teoria sessuale del 1905 e Pulsioni e i loro destini del 1915, Freud accenna alla pulsione di dominio che ha come base l’autonomia, la separazione e l’interscambio.
La pulsione di dominio o d’impossessamento è una pulsione per certi aspetti oscura e ancora poco analizzata, ed ha come fine ultimo il dominio dell’oggetto (l’altro).
In qualsiasi atto clinico, tanto psicoterapeutico quanto preventivo, è di fondamentale importanza mantenere un’attitudine che tenda a non considerare naturale il fenomeno della violenza.
Credo che un compito importante sia l’elaborazione della ripetizione e l’integrazione delle parti scisse del soggetto.
Dobbiamo menzionare la complessità che ruota intorno a queste problematiche, che va dall’individuale al sociale e, transita per le condizioni economiche concrete.
Possiamo prendere l’esempio delle persone che vengono escluse ed emarginate dal circuito socio-lavorativo, in cui le tensioni sono talmente potenti tali da far esplodere atti di violenza.
Perché l’esclusione stessa è in sé è una forma carica di violenza.
Diversi tipi di violenza vengono esercitati sugli immigrati, sugli stranieri, sui diversi, per esempio quando viene negato loro il diritto di appartenenza (cittadinanza).
La non appartenenza viene vissuta con colpa e angoscia, legata al sentimento di non appartenere a se stessi “senza identità e senza luogo”.
La violenza esercitata in generale sulle minoranze implica azioni che producono fenomeni di frantumazione dei legami sociali e forme di sottomissione.
Vi è sempre un tentativo di annullare l’autonomia, la volontà e i desideri; sono il rovescio dei diritti dell’altro con la sua singolarità e differenza. Nelle nostre società basate sul “controllo” e sull’autoritarismo si tende ad alienare e cosificare i soggetti. Tutto ciò è insopportabile!
Passiamo ora a Bleger, facciamo riferimento all’opera Psicoigiene e psicologia istituzionale, in particolare nei passaggi in cui afferma che è necessario ripensare ai modelli concettuali per ampliare la mente e allagare il campo del nostro lavoro, dotandoci di uno schema di riferimento flessibile, dato che dobbiamo studiare l’essere umano nelle situazioni concrete di vita, nella sua quotidianità, nei suoi vincoli interpersonali e nei vari ambiti di intervento.
Questi ambiti (individuali, familiari, gruppali, istituzionali e comunitari) interagiscono tra di loro e, lo stesso accade con il fenomeno della violenza, che attraversa questi ambiti.
Nella nostra concezione, la stessa idea di soggettività è considerata come il prodotto di questi vincoli. In questo mondo globalizzato è necessario studiare gli effetti che la violenza produce sui nostri corpi, sulle nostre identità e sulle diverse appartenenze.
Adesso mi interessa collocare nella scena familiare ed anche istituzionale, questa nozione di violenza e le forme che prende in questi ambiti.
Prima due parole sulla famiglia.
Questa configurazione attuale non è esistita da sempre ma inizia con la rivoluzione industriale.
Da tempi lontani sono esistite forme di raggruppamento dell’uomo e della donna e dei loro discendenti in forma tribale di clan, nomade etc. e fino ad oggi in cui si parla di famiglia allargata.
Direi che nella sua forma moderna possiamo considerare la famiglia su due versanti:
- la famiglia come istituzione la cui finalità è la socializzazione dei suoi membri in cui concorrono altre istituzioni (della salute, educativa, etc.). Questo è il versante delle regole, del diritto e della norma.
- La famiglia come gruppo dove interveniamo con diversi compiti, psicoterapeutico o di prevenzione. La principale funzione di questo gruppo familiare è servire da contenitore per permettere lo sviluppo, la crescita e cioè l’evoluzione dei suoi componenti. Questo gruppo preformato ha una storia che deriva dai suoi antenati e che, a sua volta, è stata trasmessa dalle altre generazioni. Questa trasmissione avviene soprattutto in modo non dicibile: sono i “non detti” o non consci che determinano nei membri della famiglia azioni, pensieri, affetti che sono in relazione al corpo, al rapporto con gli altri e anche con il contesto extrafamiliare.
Questa trasmissione latente è stata denominata “trasmissione trans generazionale”. Tutte le scuole che studiano la famiglia riconoscono questa nozione.
La famiglia è la matrice formativa dell’identità e delle differenze sessuali e generazionali, che nei migliori dei casi crea le condizioni verso l’autonomia dei suoi integranti.
In certi gruppi familiari, il processo verso l’indipendenza e l’autonomia viene impedito e ostacolato da difficoltà insorte per diversi motivi: i deficit o la distorsione nei vincoli, i malintesi o i silenzi nella comunicazione che possono manifestarsi con atti di violenza e privi di senso.
È impedita la possibilità di simbolizzare la conflittualità e trasformarla in un atto di pensiero.
Ora prendiamo Pichon Riviére. Egli analizza i conflitti che insorgono a livello della comunicazione tra i diversi membri del gruppo familiare a partire dal malinteso. Il malinteso “serve” a volte per sostenere a tutti i costi un ideale familiare (trasmesso da altre generazioni). In questo senso ha creato la sua teoria del deposito, che afferma che il depositario è colui che si fa carico delle ansie del gruppo di fronte a situazioni irrisolte (crisi della vita, lutti), o situazioni traumatiche mai elaborate. Per esempio gli effetti delle guerre esterne e interne; pulsioni violente verso se stessi o un altro per un eccesso narcisistico che non sopporta le differenze.
Per queste situazioni di violenza possiamo prendere in analogia la nozione di trauma, in cui vi è la tendenza alla scarica impulsiva immediata che irrompe violentemente e si esprime su tutti gli ambiti.
Per sintetizzare questa nozione di trauma, dato che sarebbe necessario un seminario solo per approfondire questa nozione, darò due elementi per pensare alla situazione:
1) la prima situazione di trauma è per accumulo di tensioni e frustrazioni prolungate nel tempo, che fa salire la tensione senza offrire vie di scarica. Questo è un processo che avviene più all’interno e noi lo intendiamo come gruppo interno;
2) il ruolo che gioca l’ambiente. Freud, in Inibizione, sintomo e angoscia, distingue tra situazioni problematiche e di pericolo, postulando un’angoscia automatica (panico) e l’angoscia come segnale dell’avvicinarsi del trauma. Un esempio per tutti è quando pensiamo al bisogno del lattante dell’oggetto esterno (madre o sostituto) dato che si trova in una situazione di immaturità e impotenza.
Riprendiamo l’ambito istituzionale e le forme di violenza che si caratterizzano su questo livello.
Pensiamo di più alla prevalenza delle dispute, che al dialogo, all’interscambio delle idee nelle equipe curante, oppure a quegli atteggiamenti dove ognuno si rinchiude in se stesso nelle proprie stanze.
Per difendersi da chi o da che cosa?
Dalle esigenze o dalle pressioni che pongono le istituzioni? O forse per resistere al cambiamento?
Le forme di violenza nelle istituzioni agiscono nei bordi di questi problematiche, irrompono con modalità di complicità, con i silenzi e con le adesioni di sottomissione al potere.
In questo senso dobbiamo pensare all’istituzione come ad uno strumento operativo: l’istituzione intesa come intergruppo, è una “unità minima di analisi”, a partire dalla quale possiamo pensare diversi rapporti istituzionali.
Sempre saranno rapporti tra i gruppi (interni ed esterni) e, queste relazioni, saranno o di cooperazione o di litigio resistenziale.
Si giocherà in ognuno dei componenti il confronto tra il proprio gruppo interno (primario) ed i gruppi attuali. Questo movimento permette di mettere in luce il controtransfert con l’istituzione o l’implicazione che gli operatori hanno verso la loro appartenenza istituzionale, così come il transfert verso i pazienti.
Questa nozione di intergruppo ci permette di ripensare ai rapporti interni, di interscambio, simbolico, affettivo, economico e di potere che transitano tra i gruppi, ed è utile e importante per costruire un’idea di istituzione, che ci permetta di pensarla come uno strumento terapeutico, se non è troppo ammalata o ammalante. Da sempre siamo intervenuti nelle istituzioni, con l’idea o ideologia, che con diversi dispositivi potevamo trasformarle da dentro.
L’istituzione era pensata come supporto per il paziente (utente), per dare un’opportunità di rivedere e avere un nuovo vissuto delle situazioni conflittuali e della loro vita.
Un contenitore dove poter giocare tutte le fantasie sulla malattia, sulla guarigione e sul processo della cura. Se viene operata una discontinuità nella cura, questo è sentito e sofferto dagli utenti come violenza che viene provocata dall’istituzione su di loro.
Inoltre sappiamo che gli operatori rappresentano aspetti e parti inconsce del paziente, che questo proietta e deposita su di loro e, quindi deve esserci una continuità che li contenga.
In questa matrice intergruppale, i diversi compiti sono di fondamentale importanza, perché si manifestino le situazioni non dette, cioè il latente istituzionale.
A mio avviso, questo rappresenta un fattore di salute, tanto per le istituzioni-organizzazioni quanto per l’equipe curante e come effetto sull’utenza.
Da sempre abbiamo sostenuto che, prima di intraprendere un rapporto terapeutico con un paziente, è necessario rivedere i nostri schemi di riferimento il cui nemico è lo stereotipo, la rigidità e la ripetizione.
Ma cosa succede quando, questa ripetizione o burocratizzazione del lavoro, ci viene riproposta nella quotidianità istituzionale?
Non possiamo fare a meno di pensare agli atti violenti che attraversano questo ambito, i cui effetti sono prodotti da una scelta della logica del profitto e fissità (mentale, dei ruoli, la gerarchia non funzionale che crea autoritarismo).